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 2015  dicembre 21 Lunedì calendario

AMERICANI, SCEICCHI, INDUSTRIE CHI VINCE E CHI PERDE CON IL PETROLIO A 35 DOLLARI

Il petrolio a 35 dollari? Uguale a morti, feriti. E zombies. Le guerre, infatti, anche quelle metaforiche, fanno morti e feriti. Così è per la guerra del petrolio che, in un anno, ha ridotto a meno di un terzo, intorno ai 35 dollari , il prezzo del barile di greggio, tornato ai livelli della crisi finanziaria 2008 e, considerata l’inflazione, anche più indietro, al 2002. Ci sono i morti: negli Usa, da giugno, 12 aziende petrolifere sono fallite, il numero più alto dal 1999. Ci sono i feriti: finanche i potenti sceicchi sauditi sono costretti a tagliare i sussidi del welfare per far fronte al crollo degli incassi. E ci sono gli zombies. Vediamo in dettaglio le varie categorie.
Gli americani. Ogni volta che il prezzo del barile scende di un dollaro, nelle pianure steppose del Texas e del North Dakota aumentano i morti viventi. Sono le compagnie petrolifere che hanno ancora abbastanza soldi per pagare gli interessi sulle montagne di debiti con cui hanno lavorato negli anni scorsi, ma non hanno più i fondi necessari per trivellare nuovi pozzi che sostituiscano i vecchi in esaurimento. E, poiché nel mondo del fracking - la tecnica di estrazione del petrolio attraverso la frantumazione delle rocce che lo imprigionano - un pozzo si esaurisce entro uno-due anni e bisogna continuamente perforarne di nuovi per avere greggio, se le trivelle sono ferme, la morte è solo sospesa. Gli avvocati fallimentari la chiamano "liquidazione al rallentatore". L’anno prossimo, il numero degli zombies è destinato a moltiplicarsi. I cowboys del fracking, infatti, si sono finanziati in questi anni grazie alla caccia di Wall Street – in regime di tassi zero per i junk bonds ad alto rendimento che offrivano. E come pagavano e pagano gli interessi? Grazie al fatto che sempre Wall Street offriva loro contratti di hedging, cioè la possibilità di assicurarsi un prezzo del petrolio prefissato, a prescindere dalle quotazioni di mercato, in cambio del pagamento di una polizza. Un po’ come funzionano, nel caso dei debiti obbligazionari, i credit default swap. Molti hedge prevedevano un prezzo anche di 90 dollari a barile. Ma questi contratti costano. Molte aziende non li stanno rinnovando e, l’anno prossimo, dovranno far fronte alle quotazioni effettive di mercato. Si prevede una mattanza, a meno che, naturalmente, il prezzo del barile non risalga. Almeno a 50 dollari, quanto occorre per far quadrare i conti ad un po’ di frackers. Ma nessuno crede che questo possa avvenire. Gli esperti danno per scontato che, nel 2016, grazie, appunto, all’uscita di scena degli zombies, la produzione non Opec scenderà di 600mila barili al giorno. Un momento: il surplus di offerta che sta affondando i prezzi è un po’ più alto, visto che manca la domanda per 1,5-2 milioni di barili. 600 mila fuori gioco, però, dovrebbero aiutare a far risalire le quotazioni, no? Niente affatto, perché non si materializzeranno. Sempre l’anno prossimo, infatti, scontate le sanzioni, torna sulla scena mondiale l’Iran. L’azienda petrolifera di Teheran ha già annunciato l’intenzione di rovesciare sul mercato 5-700 mila barili al giorno, quanto basta per colmare il buco dei cowboys. I prezzi, dunque, scenderanno ancora.
Gli sceicchi. Iraq, Iran e Arabia Saudita si stanno svenando per mantenere e conquistare quote di mercato: gli incassi dell’Opec sono passati in un anno da mille miliardi di dollari alla metà. Ma, mentre per Iraq e Iran qualsiasi barile venduto è, comunque, un di più rispetto alla non-produzione degli anni scorsi, l’Arabia Saudita è ad un passaggio difficile. I suoi diplomatici si danno da fare per disseminare il mercato più importante, quello asiatico, di raffinerie per diversificare gli introiti. I tecnici studiano la possibilità di una decisa virata per sfruttare l’abbondante energia solare dei tropici. Ma, qui ed ora, per mantenere il generoso regime di sussidi alla popolazione e il portafoglio di faraonici progetti di sviluppo, Riad avrebbe bisogno di un prezzo del petrolio fra gli 80 e i 90 dollari a barile. Nelle casse ci sono riserve per 700 miliardi di dollari, dunque, il regno ha il fiato lungo. Nel bilancio statale che sarà presentato questa settimana, tuttavia, il deficit sarà pari al 20 per cento del Pil, troppo alto anche per i rilassati standard dei paesi del Golfo. L’obiettivo è dimezzarlo, rinunciando a qualche costosa infrastruttura, limitando salari e gratifiche dei dipendenti pubblici e tagliando i sussidi sul prezzo dell’energia per le industrie. Per ora, il terreno assai scivoloso dei sussidi sul prezzo della benzina alla pompa non verrà probabilmente toccato, per non suscitare il malcontento popolare, ma se la guerra dei prezzi continua, sarà difficile continuare a girarci intorno.
I consumatori. Il bello delle guerre dei prezzi è, però, che, mentre i contendenti si svenano, c’è chi ci guadagna e basta. Nel caso del petrolio, il grande arcipelago dei consumatori. Il Fmi calcola che il crollo del prezzo del petrolio possa dare una spinta di mezzo punto-un punto al Pil dei paesi importatori. Non è poco, in un momento in cui il prodotto interno lordo mondiale cresce appena poco più del 3 per cento a livello globale e intorno al 2 per cento per i paesi avanzati, per lo più importatori. E qualche segnale positivo si coglie anche guardandosi intorno. Le compagnie aeree, grazie allo sconto sul carburante, raddoppieranno gli utili rispetto al 2014. Americani, cinesi, indiani, grazie alla benzina a prezzi stracciati, hanno passato un’estate, per la prima volta da anni, al volante. Il mercato dell’auto ha ripreso vigore, dalle due parti dell’Atlantico. I costi di trasporto delle merci, in Europa, mediamente sono scesi del 10%, Italia compresa, grazie alla riduzione di prezzo del gasolio per i camion.
Le imprese. Dopo tanti shock petroliferi un prezzo del petrolio che, nel giro di un anno, si riduce di due terzi non produce l’euforia che molti si attendevano. Nei grandi paesi consumatori, si fa fatica a vedere la spinta favorevole del ribasso dell’energia. Un motivo è strutturale. Dice Fatih Birol, il direttore esecutivo della Iea, il braccio dell’Ocse che si occupa di energia: "In questi anni, lo sviluppo economico si è sganciato dal consumo di energia". Vuol dire che la quantità di energia che viene impiegata per realizzare una unità di Pil è sempre di meno. Questo parametro - che gli addetti ai lavori chiamano intensità di energia - è crollato di oltre il 25%, negli Usa e in Germania, negli ultimi venti anni. Del 17 per cento in Francia, del 6 per cento in Italia (che partiva, comunque da quote più basse di tutti gli altri). Nel paese tuttora più energivoro di tutti, la Cina, è precipitato del 33 per cento. Come una utilitaria, il mondo viaggia consumando sempre meno e il prezzo della benzina non è più il fattore principale per decidere se viaggiare o no. La sferzata del ribasso del petrolio non basta, dunque, a rimettere in marcia un’economia globale che la crisi finanziaria del 2008 ha fiaccato più di una normale recessione. Accanto al motivo strutturale ci sono, cioè, fattori congiunturali. Il petrolio scende ma la risalita del dollaro mette in crisi i paesi emergenti, sull’orlo di una crisi del debito. Più della guerra del barile, pesa poi il rallentamento non episodico dell’economia cinese. Lo mostra l’andamento dei commerci.
La deflazione. Far muovere una nave costa meno, ma l’industria dei container è in crisi. Il gigante Maersk riduce flotta e marinai. Il Baltic Dry Index, che misura l’andamento del traffico merci non petrolifero, non è mai stato così basso. Gli economisti stanno improvvisamente scoprendo che forse i salari sono troppo bassi per sostenere la domanda mondiale, ora che gli americani non sono più disposti ad indebitarsi per consumare. La sbornia estiva di benzina di cinesi e americani è già rientrata. Il risultato è un paradosso. Della bonanza del petrolio a prezzi stracciati, finiamo per considerare quasi di più gli aspetti negativi. Ovvero, il velenoso colpo di coda sui prezzi. La deflazione sta corrodendo le capacità di ripresa dell’economia europea, aggravando il peso dei debiti, scoraggiando gli investimenti e il petrolio in discesa zavorra l’indice generale dei prezzi. A novembre, in Europa sono aumentati solo dello 0,2%, in Italia sono diminuiti. La Bce, che si aspetta un’inflazione almeno all’1% l’anno prossimo, potrebbe essere troppo ottimista. Gli analisti della Barclays, visto che nei primi dieci giorni di dicembre il prezzo in euro, del barile è già sceso di un decimo, si fermano allo 0,7%, con il rischio che, in realtà, non si arrivi che allo 0,4.
di MAURIZIO RICCI, Affari&Finanza – la Repubblica 21/12/2015