Corriere della Sera, 21 dicembre 2015
La rimonta di Podemos
Madrid è metà azzurra e metà viola. Ma il Pp festeggia per dovere: il primo partito perde più di 60 seggi. Podemos tallona i socialisti e i fan di Iglesias impazziscono: «Remontada! Sí se puede! Pablo presidente!».
Iglesias parla nella notte leggendo un testo, di cui fa cadere i fogli sulla folla adorante. Chiama a raccolta la Spagna repubblicana di Francisco Largo Caballero, la Spagna letteraria di Manuel Vázquez Montalbán, canta «El pueblo unido jamás será vencido». E si candida alla guida del governo: la sua idea è una coalizione di sinistra con il Psoe e i partiti regionali, compresi i separatisti catalani, cui viene offerto un referendum sull’indipendenza. Una prospettiva che spaventa sia l’establishment locale, sia i mercati internazionali, sia Berlino e Bruxelles. La Germania, che controlla il grosso del debito pubblico spagnolo, e l’Europa, che non può lasciare la quarta economia dell’eurozona senza governo, faranno pressioni per una grande coalizione. Un governo Pp-Psoe appare improbabile; ma un governo lo si dovrà pur fare, e i socialisti potrebbero essere indotti ad astenersi. «La lista più votata è quella dei popolari» ha ammesso il leader socialista, con parole che sono suonate come un’apertura. Altrimenti si torna al voto: un orizzonte che spaventa tutti. È viola la piazza Reina Sofia, ai limiti del quartiere multietnico di Lavapiés. Il viola «morado» non è solo il colore di Podemos; dei tre colori della bandiera repubblicana – gialla rossa e appunto «morada» – è quello che manca nel vessillo spagnolo, adottato dopo la vittoria di Franco. Con la bandiera repubblicana Iglesias e i suoi amici percorsero Lavapiés la notte del 2010 in cui la nazionale vinse i Mondiali di calcio; e videro che neri, arabi, sudamericani festeggiavano con la bandiera spagnola. «È stato allora che ho capito il mio errore – ha detto Iglesias —. Noi non ci rivolgiamo solo alla sinistra. Interpretiamo la rabbia di tutto un popolo». Tre settimane fa Podemos era al 14% nei sondaggi; ora supera il 20. «Stanotte cambia la storia del nostro Paese, cambia la storia d’Europa» dice El Coleta, il Codino. È la versione spagnola di Marine Le Pen o di Grillo: il segno della rivolta contro le élites, le forme tradizionali di rappresentanza, i vecchi partiti.
Qui i vecchi partiti potrebbero essere costretti a unirsi. La Spagna era il bastione occidentale del sistema tedesco, che ha già perso il bastione orientale, la Polonia. L’Europa ha salvato con 40 miliardi le banche spagnole, qualche arma di pressione la conserva, e tenterà di favorire una forma di collaborazione tra popolari e socialisti. L’accordo destra-sinistra non fa parte della cultura politica spagnola. Ma stanotte è cambiato tutto.
La Gran Via dei palazzi del potere si colora di azzurro. I sostenitori del Pp rivendicano la vittoria; però sono molto lontani dalla maggioranza assoluta. Rajoy si è confermato buon incassatore. Non ha fatto drammi per il pugno ricevuto in campagna elettorale, ha frenato i suoi che volevano farne un martire dell’onda eversiva; ha cambiato gli occhiali, e ha sollecitato un ritorno all’ordine nel segreto dell’urna. Gli spagnoli l’hanno ascoltato solo in parte. Nella notte Rajoy ha rivendicato di aver comunque vinto le elezioni. Nei prossimi giorni alzerà la voce per impedire un «governo dei perdenti», come quello che si è insediato in Portogallo, dove la destra è arrivata prima ma ha dovuto cedere a una coalizione di sinistra. Innanzitutto il Pp cercherà l’appoggio dei Ciudadanos di Albert Rivera, uscito ridimensionato: «Io sono pronto ad astenermi. Non so cosa faranno i socialisti» ha detto.
Il Psoe di Pedro Sánchez ha ulteriormente peggiorato il risultato disastroso del 2011; ma paradossalmente si ritrova al centro dei giochi. Può scegliere una coalizione di sinistra con Podemos, che però dovrebbe chiedere il sostegno dei separatisti catalani, rafforzati dal voto. Oppure può far nascere un governo dei popolari. Dietro le quinte peseranno sia il vecchio establishment del partito – più Gonzalez e Rubalcaba che non Zapatero – sia le due donne emergenti, la catalana Carme Chacón e la presidenta andalusa Susana Díaz. L’istinto della base è guardare a sinistra, verso Podemos e Erc, Esquerra republicana de Catalunya, i cui leader rifiutano di parlare castigliano in pubblico. L’Europa farà pressione perché il Psoe consenta invece il varo di un esecutivo di minoranza del Pp; e le prime parole di Sanchez vanno in questa direzione. Per un accordo lavorerà re Felipe VI. La Costituzione gli assegna poteri di «arbitraggio», molto limitati. Ma la sua persuasione morale nei prossimi giorni può aiutare a sciogliere il rebus.
Certo la Spagna non può restare a lungo senza governo. Lo impedisce la situazione economica: il Paese cresce al 3,4%, ma è una ripresa ancora fragile, minata dalla disoccupazione, dall’emergenza sociale, dalle incognite sulla reazione dei mercati finanziari a un verdetto elettorale così complesso. E lo impedisce la questione catalana. A Barcellona l’affluenza è stata bassa a inizio giornata: erano tutti davanti alla tv a vedere il Barca vincere la Coppa intercontinentale. Poi i catalani sono andati a votare e si sono espressi in maggioranza per le forze separatiste e per la versione locale di Podemos.
Comunque evolva la situazione, il 20 dicembre si conferma un giorno fatale per la Spagna. Quarantadue anni fa a Madrid il primo ministro di Franco, l’ammiraglio Carrero Blanco, saltava in aria all’uscita della chiesa di san Francesco Borgia: l’auto superò un palazzo di cinque piani e atterrò in cortile. Il regime cominciava a morire. Ieri notte è finito il bipartitismo spagnolo. E per l’Europa suona una campana d’allarme che può anche diventare un’opportunità. Dice Gonzalez che avremo «un Parlamento all’italiana ma senza italiani». I nuovi deputati di Podemos e Ciudadanos dovranno dare indicazioni: sinistra, centro, destra? I commessi delle Cortes sono preoccupati: non sanno dove metterli.