CorrierEconomia, 21 dicembre 2015
Non ci sono vincitori in questa guerra del petrolio
Serve un tuffo nel passato per guardare al futuro? Se si sta alla cronaca recente del mercato petrolifero sembrerebbe proprio di sì: toccando i 37 dollari al barile il Brent, il benchmark internazionale, è tornato ai valori del 2008. Il Wti, la qualità del Texas, è sceso anche sotto quota 35, e non accadeva dal 2009. La Federal Reserve, per la prima volta dal 2006, ha invece ritoccato i tassi Usa, rialzando quelli sui fondi federali allo 0,5%. Una mossa che causando un rafforzamento del dollaro rende un po’ più oneroso (in particolare per i Paesi in via di sviluppo) comprare greggio.
Il Congresso di Washington, poi, ha discusso aspramente dell’opportunità di abolire, a 40 anni dall’embargo arabo e dalle code degli automobilisti ai distributori di benzina, il patriottico divieto di esportare greggio al di fuori dei confini degli Stati Uniti. Mentre i ribassi dell’ultimo anno e mezzo del Brent sono stati di portata tale che renderanno quasi impercettibile l’effetto del rincaro del dollaro (e il connesso disincentivo all’acquisto di greggio), la caduta del vincolo all’esportazione di petrolio Usa, in teoria, potrebbe aprire la porta a nuovi poderosi afflussi di materia prima sul mercato internazionale e a nuovi ulteriori ribassi delle quotazioni. In teoria, però: senza la spinta di prezzi più elevati gli oilman Usa non avrebbero motivo di accelerare su investimenti e produzione. E il differenziale tra Brent e Wti, che in passato ha anche sfiorato i 10 dollari al barile, è oggi a poco più di un dollaro. Un margine che non servirebbe neppure a coprire il costo del trasporto fino ai mercati asiatici o europei. Secondo le prime previsioni, in sostanza, la caduta del divieto di export non farà altro che riallineare i prezzi interni Usa a quelli internazionali, attenuando quindi la portata di un evento che rimane comunque storico.
Resistenze
Insomma, malgrado gli sviluppi recenti il mercato petrolifero resterà agganciato anche nel 2016 ai trend che l’hanno dominato da novembre 2014, da quando cioè il cartello Opec spinto dall’Arabia Saudita ha deciso di lasciar correre produzioni e prezzi e di difendere esclusivamente le quote di mercato dalla minaccia dei produttori non-Opec. Un dietro-front radicale rispetto alla politica del decennio precedente: mantenere prezzi elevati, ma non così tanto da favorire la concorrenza di nuove fonti di energia. Sta pagando la nuova strategia? Dal punto di vista saudita un anno dopo il bilancio appare positivo. La produzione di Riyadh è salita da 9,7 milioni di barili/giorno a 10,2 milioni. Quella degli Stati Uniti ha smesso di crescere anno dopo anno a colpi di un milione di barili/giorno e dopo l’estate ha iniziato a cedere 100mila barili/giorno ogni mese. A 37 dollari al barile la drilling intensity, l’intensità di perforazione che è il cuore della rivoluzione shale americana, sta scemando e in dieci mesi è diminuita del 60%: gli impianti attivi negli Usa erano 545 ai primi di dicembre, contro i 1.609 di ottobre 2014. Nel solo 2015, inoltre, sono state una quarantina le aziende sull’orlo della bancarotta che hanno cercato la protezione del Chapter 11. Ultima degli zombie, ormai in grado solo di pagare gli interessi sul debito, è stata la texana Magnum Hunter Resources.
Così non sarebbe stato se l’Opec non avesse deciso di cambiare politica. Tuttavia, malgrado il nulla di fatto del vertice viennese del 4 dicembre, l’urgenza di un ribilanciamento del mercato petrolifero si fa sempre più impellente. Con gli incassi dimezzati i problemi di bilancio si fanno sentire per tutti, anche se a differenti livelli: se nella ricca Riyadh per la prima volta da anni si parla di emettere prestiti obbligazionari sui mercati internazionali, a Caracas la situazione sociale è ormai al limite, e il nuovo governo venezuelano post-chavista ne è ben conscio.
Le compagnie, da parte loro, hanno tagliato gli investimenti e ora dovrebbero operare sulla carne viva di utili e dividendi. D’altronde, però, le condizioni poste dai sauditi per iniziare a parlare di un taglio della produzione non sono cambiate: non solo l’Opec dovrebbe impegnarsi a farlo, dicono a Riyadh, perché non si vuole lasciare spazio a produttori opportunisti, come gli indipendenti americani (che vanno invece spinti al fallimento facendo scoppiare la bolla finanziaria che nutre il fenomeno shale). Anche gli Stati estranei al cartello dovrebbero farlo, includendo nel lotto ovviamente la Russia. La situazione è intricata: all’interno dell’Opec anche a Iraq e Iran sarebbe richiesto di fare la loro parte. Ma Teheran è stata altrettanto chiara, sostenendo che non taglierà almeno fino a quando le sanzioni occidentali non saranno eliminate e non avrà recuperato i livelli precedenti il 2012. Un bel problema, visto che nel 2011 produceva 3,6 milioni di barili/giorno e oggi è a quota 2,87.
Dietro la questione dei tagli di produzione si nasconde, ovviamente, la partita geopolitica. I sauditi, sotto pressione su due fronti, quello yemenita e quello dello Stato Islamico, e irritati dalla conclusione dell’accordo nucleare tra i P5+1 e lo storico rivale iraniano, continuano a impugnare l’arma che meglio conoscono e con la quale sono più familiari: il petrolio appunto. Tra i fili dell’intricata matassa mediorientale quello saudita è uno dei più cruciali per l’economia mondiale. Ma il compromesso che potrebbe sciogliere il nodo ancora non si vede.