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 2015  dicembre 21 Lunedì calendario

Giulio Ghersi, lo scienziato che crea i pezzi di ricambio per il corpo umano

Giulio Ghersi è uno scienziato un po’ anomalo. Scordatevi lo studioso immerso nei libri e perso nel suo mondo: lui (pur studiando tanto) è molto interessato all’aspetto pratico delle sue ricerche, ama dare forma alle sue idee. Scordatevi anche lo scienziato chiuso nel suo laboratorio: lui è talmente dentro il mondo che ha imparato a sviluppare insospettabili doti imprenditoriali. Dopo aver lavorato per anni negli Stati Uniti, da Washington a New York, ha trovato il coraggio di fare il viaggio all’incontrario ed è rientrato a Palermo. Qui ha cercato di portare la sua idea di scienza coltivata in America, un’idea rivoluzionaria e semplice allo stesso tempo: abbattere i confini che dividono le varie discipline, far parlare tra loro il medico e l’ingegnere, il chimico e il matematico. Far cadere tutte le barriere che separano un’eccellenza dall’altra, metterle a sistema per migliorare la ricerca medica e quindi la salute umana. L’occasione più grande gli si è presentata quando l’Università di Palermo, dove insegna Biochimica per il corso di laurea in Biotecnologia, lo ha scelto come responsabile scientifico del Chab, Mediterranean Center for Human Health Advanced Biotechnologies, un centro unico al mondo, che è una sorta fabbrica pezzi di ricambio per la salute umana e fornisce servizi di eccellenza sia al pubblico che al privato. Una struttura all’avanguardia che sarà operativa da gennaio.
Ci spieghi cosa fa il Chab concretamente.
«Le faccio l’esempio di un paziente con una protesi all’anca. Quelle che vengono impiantate attualmente, per quanto evolute e sofisticate, hanno il limite di non essere biocompatibili e, dopo qualche anno, possono dare problemi di rigetto. Noi creiamo degli “scaffold”, delle impalcature biodegradabili e biocompatibili che vengono “metabolizzate” dall’organismo del paziente. Nel giro di pochi anni quella impalcatura sparisce perché le cellule ne ricostruiscono un’altra. Lo stesso vale per la sostituzione della pelle degli ustionati e la rigenerazione della cute. Mi vengono in mente le protesi dentarie. Abbiamo anche accordi con Pittsburgh per la produzione di valvole cardiache».
Come potrebbero cambiare le protesi dentarie?
«Anche in questo caso possono verificarsi, dopo un certo numero di anni, fenomeni di rigetto. Con il bio-polimero riassorbibile questa problematica verrebbe risolta, ovviamente sono necessari studi appropriati anche perché i denti devono sopportare forze non indifferenti».
Avete progetti anche per la cura del cancro?
«C’è un gruppo di ricerca che si occupa di costruire nanoparticelle in grado di riconoscere il bersaglio e rilasciare la molecola che trasportano. Questo permette di superare il limite maggiore della chemioterapia che è quello di distruggere anche le cellule sane. Con queste nanoparticelle si vanno a bersagliare solo le cellule tumorali».
Come è nato il progetto del Chab? Quanto è costato?
«Il Chab è nato con un finanziamento europeo di 29 milioni di euro. Il Rettore mi ha chiesto di sviluppare il progetto e io ho pensato subito a una struttura di altissimo livello tecnologico. Ho suddiviso il centro in tre macro-aree in cui sono racchiusi dodici laboratori. Il principio di fondo è che in questo centro non ci devono essere compartimenti stagni tra le singole competenze e tutti devo parlare lo stesso linguaggio. Il Chab è eccezionale e unico al mondo perché ha tutta la filiera delle biotecnologie: dalla produzione e sintesi dei materiali fino ai test finali. Abbiamo inoltre uno stabulario di zebrafish che è tecnologicamente tra i più avanzati del bacino del Mediterraneo».
Usate i pesci per le sperimentazioni? Non i topi?
«Lo zebrafish è un pesce d’acqua dolce che è considerato un modello di prima scelta per lo studio delle patologie umane. Rispetto al topo ha un costo di mantenimento che è da cento a mille volte più economico».
Che tipo di sperimentazioni farete con lo zebrafish?
«Le faccio un esempio: un’azienda farmaceutica vuole testare una nuova molecola per la cura del cancro o per altre patologie come quelle neurovegetative o quelle legate allo sviluppo embrionale, con i nostri zebrafish può effettuare questo screening su una popolazione sino a 30mila soggetti».
Ma io paziente posso rivolgermi direttamente a voi se ho bisogno di un “pezzo di ricambio”?
«No. A noi si rivolgono gli ospedali oppure le imprese che producono protesi di tutti i tipi e che vogliono realizzare prodotti tecnologicamente più avanzati, ma anche centri di ricerca e innovazione sulla salute umane. Il Chab fa superare i limiti che ricercatori e industrie hanno finora scontato nello sviluppare le proprie competenze fino allo stadio applicativo».
Lei è uno scienziato che ha anche capacità imprenditoriali: una figura abbastanza insolita nel mondo della ricerca.
«Io vorrei riuscire a far cambiare mentalità ai ricercatori, vorrei che si passasse da un sistema di produzione di carta a un nuovo sistema. Non dico che si debba smettere di studiare, ma mi piacerebbe che tutta la ricerca avesse poi un’applicazione pratica».
Meno carta più prodotti.
«Proprio così. Gli scienziati dovrebbero anche saper fare. O trovare la strada per fare. Il grande problema dell’Italia è la mancanza di fondi. Fino al 2006 sono sempre stato finanziato da enti privati ma dopo un po’ ho capito che anche i privati erano legati a logiche che non condividevo e così ho cambiato la mia strategia. Ho cominciato a fare anche io l’imprenditore. (Ghersi è anche Ceo di Abiel un’azienda biomedica che produce e vende enzimi per la terapia cellulare e la medicina rigenerativa, ndr)».
Cosa prevede nel futuro del Chab?
«Deve fare ricerca, ma deve sapere anche vendere le sue produzioni. Non possiamo permetterci di diventare uno dei tanti carrozzoni, il centro deve saper camminare con le sue gambe. Pensi che solo il mantenimento delle apparecchiature costa 3 milioni di euro l’anno. Deve fare anche business oltre che ricerca».
Se il Chab è una scommessa questa è la grande sfida…
«Io vorrei che nel giro di qualche anno il Chab si affrancasse dall’Università e si liberasse di una serie di vincoli amministrativi che rallentano le attività. Se voglio assumere un giovane ricercatore attualmente ci vogliono tre mesi, mentre potrebbero bastare tre giorni. Non possiamo permetterci lungaggini, lacci amministrativi e tante formalità burocratiche».
Vuole portare un po’ di America in Sicilia?
«No, voglio che le cose funzionino. E che questo centro diventi un punto di riferimento per l’Europa sia per la qualità che per la quantità di servizi offerti».
Il suo sogno? C’è qualche nuova frontiera che vorrebbe esplorare?
«Certamente nella terapia del cancro. Riuscire a lavorare sulle nanoparticelle realizzate dagli ingegneri e dai chimici, e renderle funzionali in modo che riescano a colpire solo le cellule malate. E poi mi piacerebbe continuare a lavorare sulla terapia cellulare. Ho già creato con la mia società degli enzimi ricombinati che permettono di standardizzare i protocolli per l’ottenimento di cellule primarie e/o staminali che si possono utilizzare nelle diverse applicazioni della medicina rigenerativa».
Si è pentito di essere tornato in Italia?
«Ci si pente sempre. Qualsiasi scelta si faccia. Nel mio caso perché non saprò mai cosa avrei potuto fare in America. Certamente all’estero nel campo della ricerca funziona tutto meglio, qui invece è estremamente complicato, faticoso. Uso questi aggettivi per essere soft…».