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 2015  dicembre 21 Lunedì calendario

Sulle Ong internazionali che in Palestina fanno più danni che altro

Ma tu che sei esperta, mi chiede una svedese: quando l’esercito attacca, io come contrattacco? Ha settant’anni, la maglietta di Yoko Ono e un caschetto da ciclista. E una così, cosa puoi risponderle? Signora, non si preoccupi. Se l’esercito attacca, lei muore subito.
È arrivata a Bil’in, 12 chilometri da Ramallah, a bordo di un furgoncino dell’Alternative Tourism Group. Come ogni venerdì, all’una, dopo la preghiera, i palestinesi protestano in corteo contro il Muro, contro l’occupazione: e gli israeliani rispondono con lacrimogeni e proiettili di gomma. A volte proiettili veri. È così dalla fine della Seconda Intifada. Ogni venerdì. Da quando Israele, per fermare gli attentati suicidi, ha iniziato a costruire il Muro, e i palestinesi, un po’ per opporsi al Muro un po’ per riorganizzarsi dopo il fallimento della resistenza armata, si sono convertiti alla non violenza. E nei primi anni ha funzionato – nei limiti in cui le cose funzionano, qui: il Muro, dichiarato illegale dal tribunale dell’Aja perché ingloba terra palestinese, e il suo obiettivo, più che garantire la sicurezza, è frantumare la West Bank, e complicare la vita, è stato appena spostato di tracciato. A tratti demolito. Ma adesso, le manifestazioni del venerdì non sono che un’attrazione turistica. Tra stranieri e giornalisti, siamo più dei palestinesi.
Come un circo turistico
Bil’in, Ni’lin. Nabi Saleh. Sono nomi ormai famosi. Ogni venerdì, all’una, puntuale, una manciata di ragazzini tira pietre: gli israeliani rispondono, e i palestinesi arretrano, si disperdono, aspettano cinque, dieci minuti, poi ricominciano, di nuovo tirano pietre, e di nuovo i soldati rispondono, di nuovo i palestinesi arretrano – quando un proiettile di gomma colpisce qualcuno, un’ambulanza si precipita a sirene spiegate a medicare il graffio. Contribuire al dramma. Il resto del villaggio, intanto, dalle retrovie, suona spazientito il clacson. È venerdì, l’equivalente della nostra domenica, vogliono passare: stanno tutti andando in gita fuori.
Per la nuova guida di Ramallah, d’altra parte, il Muro è tra le cose da non perdere. “Deprimente”, dice la didascalia, “ma affascinante”.
Sono settimane di Intifada, tra israeliani e palestinesi. Un morto al giorno. Ma i veri protagonisti sono invisibili alla cronaca: sono gli internazionali. Gli scontri, infatti, gli accoltellamenti restano casi isolati. Non si ha una rivolta generale – Hamas e Fatah, al solito, sono ai ferri corti, impegnate a trovare un successore all’80enne Mahmoud Abbas: e nessuno è disposto ad avventurarsi in un’Intifada senza leadership né strategia. E una delle ragioni per cui la società civile è così debole, e fino a pochi anni fa invece era il contrario, i palestinesi erano l’avanguardia degli attivisti arabi, è che sono arrivate le nostre Ong a rafforzarla.
Furono una svolta
“I primi internazionali sono stati una svolta. Erano quasi tutti specialisti di diritti umani, e hanno tradotto in termini giuridici l’occupazione, impostando il ricorso all’Onu, al tribunale dell’Aja. Le convenzioni di Ginevra sono diventate la nostra nuova arma. Una delle più efficaci”, dice Jamal Juma, il coordinatore delle iniziative contro il Muro. “Ma poi sono arrivate Ong di altro tipo: quelle di aiuto allo sviluppo. E un po’ alla volta, si sono trasformate in una forma di welfare”, dice. Oggi le Ong, qui, sono centinaia. Nessuno sa più neppure il numero preciso. “E la maggioranza si dedica a progetti inutili, il cui solo obiettivo è offrire uno stipendio ai palestinesi. E tenerli buoni”. Anche perché i direttori di progetto sono stranieri: i palestinesi sono chiamati semplicemente ad attuare progetti pensati altrove. Il risultato è stato lo sfibramento della società civile. E soprattutto, il passaggio dalla politica alla tecnica. Quando l’esercito confisca una strada, si ha subito una Ong pronta a costruirne una alternativa. “Ma l’obiettivo”, dice Jamal Juma, “dovrebbe essere combattere l’occupazione, non aiutarci a conviverci”. Il dibattito, in questi giorni, è tutto sul traffico di Qalandia, il checkpoint che separa Ramallah da Gerusalemme. E in cui si rimane imbottigliati per ore. Ed è un dibattito sulla viabilità: sui sensi di marcia, le carreggiate. Gli svincoli. “Ma il problema è che Qalandia è lo snodo da cui è costretto a passare chiunque. Ovunque sia diretto. Il problema non è che mancano i semafori. Il problema è che di mezzo, tra noi, c’è un Muro”.
Ma soprattutto, c’è poi un altro tipo di internazionali, verso cui l’insofferenza è ancora più forte: né attivisti né professionisti, ma semplici avventurieri. Ventenni che vengono qui per uno, due mesi, e scroccano la vacanza ospiti di un’associazione in cambio di una mano nella raccolta delle olive, di un paio di lezioni di inglese ai bambini. E sono cani sciolti che finiscono per radicalizzare il conflitto. “Agiscono di testa propria. Si scontrano con l’esercito a ogni occasione. Perché tanto poi partono, tornano a casa. Non vivono le conseguenze delle loro azioni”, dice Murad Shtaiwi, un altro degli attivisti storici della West Bank.
“E comunque”, dice amaro, “poi nelle battaglie vere non si vedono mai”.
Ragazzini. E dannosi
Come quella di Kafr Qaddoum, il suo villaggio. Oltre metà della terra è stata ormai confiscata per fare spazio a un insediamento israeliano. Erano famiglie di agricoltori: ora lavorano tutti in città. Tutti a Nablus. Ma la strada è stata chiusa. E quindi a Kafr Qaddoum, in questi mesi, si ha l’unica vera manifestazione del venerdì: perché diversamente dalle altre, l’obiettivo, qui, è specifico: è la riapertura della strada. Arrivi, attraverso sentieri sterrati e scoscesi, e trovi i bambini tutti pronti con la maschera antigas. Sono gli israeliani a iniziare, qui. I palestinesi, all’una, bruciano vecchi copertoni per proteggersi dietro una barriera di fumo nero. Ma all’improvviso, semplicemente, un ragazzo è centrato da un proiettile. E in pochi minuti, l’esercito invade tutto. Per ore è battaglia metro a metro, con le donne dai tetti, dietro le finestre, che indicano a chi è giù in strada in che direzione tirare pietre. Tutti partecipano, tutti aiutano come possono: tranne gli internazionali. “Qui che si rischia davvero, non viene nessuno”, dice Murad Shtaiwi.
Per la verità, qualcuno viene. Un australiano che sta addobbando da guerrigliero un bambino per scattargli una foto, con kefiah, fionda, maschera antigas, si scaglia contro degli attivisti israeliani che gli dicono di lasciarlo in pace a guardare i cartoni animati. Se davvero siete dalla parte dei palestinesi, urla l’australiano, restituite la terra e tornatevene in Europa. Un ragazzo si precipita a separarli. Ma a te che importa?, gli dice. Devo viverci insieme io, mica tu.
Ed è così anche a Hebron, l’epicentro di questa Intifada. I palestinesi accusano l’esercito di reagire con un eccesso di forza: di sparare ad accoltellatori che potrebbe invece disarmare, per provocare ulteriore violenza, e procedere così a ulteriori confische, ulteriori demolizioni, ulteriori arresti in un momento in cui i palestinesi sono politicamente divisi, economicamente stremati- e il mondo è tutto concentrato sull’Isis. “Per gli israeliani Hebron ha un valore speciale, perché è la sede delle Tombe dei Patriarchi. Se le altre città della West Bank possono diventare un giorno parte di Israele come oggi Haifa, città della minoranza araba, Hebron, come Gerusalemme, deve essere ebraica”, dice Issa Amro, il più noto degli attivisti. “Avremmo bisogno di più internazionali. L’abbiamo visto mille volte: in presenza di stranieri, l’esercito è costretto a rispettare un minimo di regole. Ma stanno tutti a Ramallah. Dicono che Hebron è pericolosa. Invece di venire qui, aprono nuovi uffici a Nablus, a Betlemme. A Jenin. E non capiscono che questa è esattamente la strategia di Israele: la normalizzazione. Aiutarci a vivere bene sotto occupazione”.
“E qui se non lavori in una Ong”, dice, “lavori nell’Autorità Palestinese o in Israele. In entrambi i casi, hai bisogno di una sorta di certificato rilasciato dall’intelligence, con cui si attesta che non sei un soggetto pericoloso. E cioè che non sei impegnato politicamente”.
Guide d’occupazione
“Così”, dice, “non avremo mai un’Intifada”. Un’alternativa, in realtà, esiste: lavorare come guida turistica dell’occupazione. Nella città vecchia di Hebron, infatti, ormai deserta, i militari a ogni angolo, possono entrare solo i residenti e gli stranieri. Cammini, tra gli sputi e le sassate dei coloni, e decine di palestinesi alla fame, laurea e inglese impeccabile, si offrono di organizzarti un giro ai checkpoint, agli insediamenti, piuttosto che all’ultima fabbrica di kefiah ancora in funzione. Sono tutte prodotte in Cina.