Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
Ieri a Strasburgo prima riunione del Parlamento europeo dopo le elezioni del 25 maggio. Quindi, come sempre in questi casi, elezione del presidente dell’Assemblea (il socialista Martin Schulz) e, soprattutto, insediamento di Matteo Renzi alla testa della Ue, come presidente di turno. Una carica che durerà sei mesi, ma che sarà operativa per cinque, dato che ad agosto le istituzioni del Continente vanno in vacanza. L’ultimo presidente italiano dell’Unione europea è stato Berlusconi, nel 2003. Dal 1959 ad oggi gli italiani si sono seduti su quella poltrona dodici volte. Uno di questi, nel 1990, era Andreotti, il quale riuscì a far cascare la Thatcher nella trappola della moneta unica. Il governo è cambiato due volte durante una presidenza italiana (1968 e 1996). La carica si assegna a rotazione ai capi di governo dei paesi membri, seguendo l’ordine alfabetico.
• Ha tutta l’aria di essere poco più di un’onoreficenza.
Soprattutto adesso. Prima del Trattato di Lisbona (2009), il presidente di turno dirigeva tutte le riunioni e aveva quindi un certo potere di mediazione in ogni sede. Adesso, quando si riuniscono capi di Stato e di governo la presidenza tocca al presidente del Consiglio europeo, in questo momento Herman Von Rompuy. Renzi o i suoi uomini (e donne) presiederanno invece le riunioni ministeriali, Ecofin, Giustizia eccetera, facendo la spola tra Bruxelles e il Lussemburgo. Il presidente di turno dell’Unione ha un certo potere d’indirizzo perché tocca a lui preparare l’agenda delle cose da fare e poi mediare tra le varie posizioni. Questo lavoro sta dietro ai provvedimenti che vengono via via emessi. Una buona presidenza si qualifica dal numero dei provvedimenti e dal loro peso. In teoria, il presidente potrebbe anche essere importante. In pratica, se devo stare alle esperienze degli ultimi anni, non lo abbiamo quasi mai sentito nominare. Per esempio, l’ultimo semestre è toccato alla Grecia. Beh, come negare che non se n’è accorto nessuno?
• Ma allora perché, negli ultimi mesi, tutta questa enfasi sul «semestre italiano di presidenza europea»?
Un po’ di retorica. Un po’ di parole. Che dalle nostre parti abbondano sempre. Forse il momento più importante del semestre è stato ieri. Matteo Renzi, presidente del Consiglio italiano e presidente di turno dell’Unione, è salito in cattedra e ha parlato al Parlamento europeo riunito. In quest’occasione ha potuto esprimere, con la massima risonanza, un punto di vista, un giudizio, una linea. Quello che pensa il Paese e di cui i nostri partner, in un modo o nell’altro, non potranno non tenere conto.
• Che cosa ha detto?
Ha parlato per una ventina di minuti. S’era scritto il discorso, ma ha preferito non leggere e ha parlato a braccio. Due punti chiave: l’Europa non può essere solo quella dei bilanci, dei numeri, dei debiti, delle burocrazie («se dobbiamo unire le nostre burocrazie, vi garantisco che a noi basta la nostra»); ci vuole anche e soprattutto uno slancio culturale, la riscoperta di un’anima, «il senso profondo del nostro stare insieme», «c’è un’identità comune da ritrovare», «voi rappresentate un faro di civiltà, la civilizzazione della globalizzazione», «con estrema preoccupazione devo dire che se l’Europa oggi si facesse un selfie, emergerebbe il volto della stanchezza, in alcuni casi della rassegnazione. L’Europa oggi mostrerebbe il volto della noia», «oggi in Europa c’è una generazione nuova che ha il dovere di riscoprirsi Telemaco...»
• Telemaco?
Il figlio di Ulisse. L’Odissea comincia con la Telemachia, per i primi quattro canti questo figlio Telemaco fa il giro degli eroi greci di ritorno da Troia per avere notizie del padre. Non so se Renzi ha fatto un buon paragone: è Ulisse, cioè un uomo vecchio e impossibile da rottamare, che alla fine torna, vince e caccia le nuove generazioni che vogliono farsi avanti ad ogni costo, cioè i Proci. In ogni caso, quello che voleva dire su questo punto è chiaro, non facciamogli troppo le pulci. «Noi non vediamo il frutto dei nostri padri come un dono dato per sempre, ma una conquista da rinnovare ogni giorno».
• E il secondo punto-chiave?
La crescita, e il ruolo dell’Italia. Prudente nelle parole sulla crescita, per esempio non gli abbiamo mai sentito dire «flessibilità» termine esecrato proprio poche ore prima nel Parlamento olandese, il cui premier ha garantito alla sua assemblea di aver bloccato insieme con i tedeschi il tentativo franco-italiano di ammorbidire le politiche di bilancio. Renzi non voleva polemiche (è stato interrotto dagli applausi sette volte) e s’è quindi limitato a dire: «L’Italia viene qui a dire che per prima ha voglia di cambiare e lo dice con il coraggio e l’orgoglio di rappresentare l’Europa. Noi vogliamo rispettare le regole, c’è la stabilità ma c’è anche la crescita. Senza crescita non c’è futuro. Non chiediamo un giudizio sul passato, ci interessa cominciare il futuro. Noi siamo una comunità, non un’espressione geografica». E anche: «Noi non vediamo il frutto dei nostri padri come un dono dato per sempre, ma una conquista da rinnovare ogni giorno sapendo che non è semplicemente nella moneta che abbiamo in tasca il nostro destino: è nell’avere il diritto di chiamarsi eredi, di assicurare un futuro a questa tradizione».
(leggi)