Eleonora Barbieri, Undici 3/7/2014, 3 luglio 2014
GIOCARE DA FERMO
Giudici di sedia e giudici di linea nel tennis sembrano accessori di una partita, invece sono determinanti. Per il punteggio e per lo spettacolo. Lui, Carlos Bernardes, brasiliano, tra i giudici di sedia più importanti del circuito. Lei, Francesca Di Massimo, tra le poche italiane giudice di linea del tennis mondiale. Abbiamo parlato con loro mentre si preparano (e si vestono) per Wimbledon. Sono solo una voce che chiama “in” o “out”. Noi gli abbiamo chiesto di più: che cosa pensano, come si concentrano, che rapporto hanno con i giocatori. Perché una pallina può cambiare il destino di un punto, di una partita, di un torneo, ma anche di un arbitro. E persino di un amore.
È in campo coi giocatori, ma li guarda dall’alto. Non è più di loro: i tennisti sono le star, campioni, milionari, che scendono sul terreno solo per sé, che non hanno una squadra e nemmeno un allenatore vicino. Soli, uno di fronte all’altro. I due giocatori e poi lui, l’arbitro, che dal seggiolone decide: e avrai vinto anche tutti gli Slam, ma se lui chiama la pallina fuori, o dentro, non puoi farci niente. Perciò non è di più, ma è determinante: non gioca, ma è in campo; nessuno ne parla, ma la partita la fa anche lui. Arbitra, e mentre assegna punti e calcola millimetri se la gode: dall’alto della sua postazione guarda il match da vicino come nessuno. Carlos Bernardes, giudice fra i più famosi al mondo, lo dice con soddisfazione: «La sedia è il posto migliore dello stadio. Sei vicino ai giocatori, parli con loro, vedi i loro stili e i loro caratteri diversi». Perché nel tennis l’arbitro non è sotto tiro come, per esempio, sui campi di calcio: i giocatori parlano con lui, si lamentano anche, ma la scenata o l’insulto sono l’eccezione. È un rapporto di lungo corso, che si basa sulla fiducia e su una serie di attenzioni: «La comunicazione è fondamentale: devi sapere adattarti a entrambi i giocatori. Per esempio a Roma, in finale, c’erano Nadal e Djokovic, uno spagnolo e un serbo. Due tipi completamente diversi. Ma tu devi parlare con tutti e due. E devi sapere quando ascoltare soltanto: perché a volte rispondere è peggio». Il giocatore vuole sempre l’ultima parola, e allora fra lui e l’arbitro è un po’ come fra marito e moglie: «Lui parla, dice la sua, magari ha anche ragione, ma io non fiato, annuisco e basta». Poi è proprio come in famiglia: bisogna stare attenti e lasciare correre con chi ti conosce da più tempo, e ormai si sente a casa. Bernardes è giudice di sedia della massima categoria (quella gold) da vent’anni, ha arbitrato la prima finale di Slam nel 2006 (a New York, tra Federer e Roddick, «impensabile per un brasiliano come me») e i grandi li conosce tutti. Federer lo chiama “Carlito”. Quando incontra i giocatori in aeroporto, loro si alzano e vanno a salutarlo. «Nadal l’ho visto per la prima volta che era ragazzino. Ho arbitrato la sua prima partita da professionista a Maiorca». Ha arbitrato anche la finale di Roma qualche settimana fa: Nadal-Djokovic. Ha vinto il serbo, come in un’altra finale dove sulla sedia c’era sempre Bernardes: quella di Wimbledon del 2011. «La partita più emozionante della mia vita. Ho dovuto aspettare i risultati delle semifinali perché, se non ci fosse stato Nadal, il mio ruolo sarebbe toccato a uno spagnolo». Un collega svizzero ormai ci ha rinunciato, per le troppe vittorie di Federer.
Sull’erba inglese Bernardes c’è anche quest’anno. E c’è Francesca Di Massimo, una dei pochissimi italiani. Lei è giudice di linea. Si sono conosciuti sui campi e ora Bernardes vive con lei a Gorle, in provincia di Bergamo, o meglio ci abita «al massimo per venti giorni di fila», perché per trenta settimane l’anno è in giro per il mondo. Come Francesca, che però mantiene ancora un lavoro in libreria a Sesto San Giovanni. Quando Francesca incontra Carlos sul campo, non è mai tranquilla. Perché i giudici di linea vengono valutati ogni volta, sia dall’arbitro sia dai commissari. Ogni partita è anche un match personale: è a seconda del voto che ricevi che si decide il tuo destino, se sarai di nuovo a bordo campo il giorno dopo, oppure se devi fare le valigie. Come per i giocatori. Perciò, mentre Bernardes vede l’errore come qualcosa che «succede, e poi passa», Francesca ha il terrore di sbagliare. Partita dopo partita, a furia di fissare e controllare le righe del campo, un’ora dopo l’altra a non lasciarsi sfuggire neanche una pallina, anche il giudice di linea può arrivare in finale. Magari, come Francesca, quella maschile sulla terra rossa del Roland Garros. E a quel punto può succederti una cosa strana: «Ecco, magari in finale sbaglio. E mi dico: come è possibile proprio adesso? Perché sono arrivata e, in qualche modo, mi rilasso».
L’arbitro sembra immobile, sembra che non partecipi, ma è tutto il contrario: è li, e non può distrarsi nemmeno un secondo. Perché è protagonista, ma il modo migliore per fare il suo mestiere è non esserlo. Una tensione continua: «La concentrazione deve essere sempre al massimo. Ti aiuta l’esperienza, e anche sapere dove sei: ci sono stadi dove il pubblico è molto più partecipe, come a Roma, o come nelle partite di Coppa Davis. Ma anche in posti come la Cina, dove c’è troppo silenzio, devi stare attento». Francesca si autoimpone di non pensare: «Mi ripeto: stai attenta al campo, stai attenta al campo. Specialmente sulla linea di fondo, se ti distrai è un attimo sbagliare». E dopo magari arriva anche il Falco, impietoso, a mostrare a tutti il tuo errore. Poi c’è la tecnica. La forma nel tennis vale: per i giocatori e per gli arbitri. Conta nell’abbigliamento, come a Wimbledon, dove il regolamento stabilisce quali e quanti bottoni allacciare, di quanto risvoltare la manica della camicia, e dove uomini e donne indossano la stessa divisa (firmata Ralph Lauren), blu coi profili bianchi. E conta nei gesti, nel tono: «Se fai una chiamata con voce insicura e sguardo incerto, il giocatore non si fida e chiede il Falco». Bisogna convincerlo prima. Il giudice di linea deve badare anche alla postura, «morbida ma precisa», alla posizione della mano, alla voce che deve essere decisa, quasi un urlo. A volte a un giocatore basta un’occhiata all’arbitro per farsi venire il dubbio. E iniziare a lamentarsi o a protestare. Perché l’uomo sulla sedia è il suo riferimento: l’unico, in campo, dove non c’è nessun altro tranne l’avversario. È un dialogo che dura tutto il match: «I giocatori mi guardano sempre, quando sbagliano e quando fanno qualcosa di buono. Perché io sono lì con loro, dentro al campo. E capisco subito quando, in una partita, cambia qualcosa». Il giudice non può prendere in mano la racchetta, ma gioca e si mette in gioco. Prima di arbitrare la finale di Wimbledon – racconta Bernardes – l’aspettativa era enorme. La gente che ti guarda, la pressione di dover essere perfetto, o anche tu perderai la tua grande occasione. Poi è fantastico, quando inizi, e anche quando finisci, col principe Filippo che stringe la mano «a tutti, anche ai raccattapalle», e la festa di gala alla sera, col tappeto rosso. C’è un po’ di relax anche per gli arbitri, a volte, come quella foto che Bernardes ha scattato in Australia con Laver, Federer e Tsonga. Però niente autografi: dal posto migliore dello stadio non ci si può abbassare per chiedere una firma come ricordo.