Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  luglio 03 Giovedì calendario

DA D’ALEMA A RENZI IL BISCIONE FILOGOVERNATIVO CON IL CAPO ALL’OPPOSIZIONE


ROMA — Primum Mediaset. Tra la difesa dei bilanci dell’azienda e la difesa dei consensi del partito, Pier Silvio Berlusconi ha optato apertamente per il core business di famiglia, con un endorsement per Matteo Renzi che — lo sapeva — «susciterà sorpresa». Così infatti è stato, soprattutto in Forza Italia, dove si è avvertito un senso di vuoto e di smarrimento per il modo in cui il figlio ha diviso ciò che per venti anni il padre aveva tenuto unito. C’è un motivo quindi se ai piani alti del Biscione i navigatori più consumati hanno provato ieri ad attenuare l’impatto determinato dalle parole del vice presidente Mediaset, che mai si era esposto in modo tanto compiuto sulle questioni politiche, finendo per esporre anche l’azienda, il partito, la famiglia.
È vero, come ogni impresa il Biscione è sempre stato filo governativo, ricavandone dividendi e tutele anche dopo la «discesa in campo» del Cavaliere. «Mediaset è un patrimonio nazionale», disse Massimo D’Alema, seppellendo l’ascia di guerra che Walter Veltroni aveva usato con i referendum (persi) sugli spot. E fu la svolta. Per certi aspetti, insomma, Pier Silvio Berlusconi non avrebbe fatto altro che applicare con Renzi l’insegnamento di Fedele Confalonieri, secondo cui «la politica è la politica, l’azienda è l’azienda». E in tempi di opposizione la linea di lotta stabilita ad Arcore non può confliggere con la linea di governo decisa a Cologno Monzese: «Il nostro mestiere va bene se va bene l’economia», dice spesso «zio Fedele».
È andata avanti così per venti anni, anche dopo il «complotto» che ha estromesso Silvio Berlusconi da Palazzo Chigi: montiani con Monti, lettiani con Letta, renziani con Renzi, «e sempre in periodi distanti da campagne elettorali», questa era la regola. Finché Pier Silvio, l’altra sera — presentando i palinsesti delle reti tv — ha dichiarato di «tifare» per il premier, accordandogli «la fiducia che si merita», e sottolineando soprattutto come il Paese oggi abbia bisogno «di stabilità», oltre che di riforme. È un’opinione che confligge con la linea politica portata avanti finora dal padre, che da quando ha rotto con il governo Letta ha sempre teorizzato l’imminenza delle elezioni in modo da tenere uniti il suo partito e il suo bacino di consensi.
Il vice presidente di Mediaset è parso rompere uno schema, o comunque evidenziare il logoramento dello schema che ha tenuto insieme Biscione e Forza Italia, passato alla storia come il «partito-azienda». Ennio Doris, amico di vecchia data del Cavaliere, respinge questa definizione «che gli avversari di Berlusconi hanno sempre usato per attaccarlo», e fornisce una spiegazione di quanto è accaduto: «Nella realtà dei fatti i figli di Silvio sono sempre rimasti fuori dalla politica. E ora che hanno incarichi ai vertici delle loro imprese sta emergendo la totale separazione tra i destini delle aziende e quelle del partito». Di più, Pier Silvio sembra porre anche fine alla telenovela su un’eventuale prosecuzione della dinastia berlusconiana in politica: «Sarebbe da pazzi scendere in campo quando c’è già il più forte di tutti. Se non succede qualcosa, Renzi vince per venti anni».
Resta da capire se la sortita del vice presidente Mediaset sia il frutto di un convincimento personale maturato nel tempo o di un eccesso di comunicazione su una materia così sensibile. Di certo c’è che in una parte della famiglia e del management le sue parole sono giunte inaspettate: perché un conto è invitare il governo a non caricare di ulteriori norme un settore come quello televisivo già gravato da molti vincoli, altra cosa è gareggiare con Murdoch nel sostenere il premier tramite la tv. E comunque non è questo che preoccupa Marina Berlusconi, quanto l’imminente sentenza sul «caso Mediatrade» che riguarda anche il fratello, e che viene vissuta con l’ansia di chi sente la propria famiglia «sotto assedio». È una spada di Damocle che va ad aggiungersi a quella posta sul capo del padre, in appello sul «caso Ruby».
Luglio si preannuncia come un mese cruciale per la famiglia Berlusconi e per il suo impero: diviso tra i verdetti giudiziari e la necessità di decidere se restare in Spagna nella pay-tv con un forte investimento o vendere a Telefonica uscendo da quel mercato. Ed è evidente che in quel mondo oggi la politica non è più prioritaria, che la tutela delle imprese val bene il sacrificio della politica. Se definitivo o momentaneo si vedrà. Per ora Pier Silvio «tifa» Renzi, a cui — come racconta Doris — «la storia è caduta addosso»: «E il premier può davvero inaugurare un lungo ciclo, grazie anche a Silvio Berlusconi, che con spirito di sacrificio sta appoggiando il percorso delle riforme. Ma alle parole Renzi dovrà far seguire i fatti. Perché se l’economia non dovesse ripartire, ne pagherebbe le conseguenze». «La cosa peggiore è deludere le promesse», ha detto l’altra sera Pier Silvio. Sta in questo frammento l’unico margine di ambiguità, quasi che il tifo celi in realtà una sfida.