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 2014  luglio 03 Giovedì calendario

Terremoti e assicurazione • Il terremoto conviene? Il terremoto, come tutte le catastrofi, può essere un’occasione di rilancio • I terremoti di Lisbona, dell’Irpinia e del Friuli • Perché in Italia i terremoti sono inevitabili

Panorama, maggio 1997
Los Angeles Frase che si legge sull’elenco telefonico di Los Angeles appena aperto: "Ci saranno sempre terremoti in California". Seguono istruzioni su come comportarsi: tenere a portata di mano torce e radio con batterie, pronto soccorso, dieci litri d’acqua, eccetera.

Sistema americano Il sistema americano riguardo ai terremoti e alle calamità naturali è completamente diverso dal nostro. Lo Stato si occupa di ricostruire solo le opere pubbliche (ponti, strade, eccetera) e si disinteressa totalmente delle abitazioni e delle industrie. I privati, se vogliono scamparla, devono assicurarsi: nessuna speranza che riprese televisive commoventi smuovano gli amministratori. Assicurarsi costa ed è rischioso anche per le compagnie perché le somme in ballo sono enormi. Per esempio, il tifone Andrews (settembre 1991), qualche anno fa, costò duemila miliardi di lire. Il terremoto di Kobe cento miliardi di dollari. Quando una compagnia del luogo accetta un rischio catastrofe (terremoto o altro), si riassicura a sua volta e chi accetta questo secondo livello di assicurazione ne stipula certamente un terzo. I livelli sono parecchi e coprono alla fine il sistema assicurativo di tutto il pianeta. Sempre per Andrews, un paio di centinaia di miliardi furono sborsati anche dalle nostre Generali.

Firenze In Italia le imprese assicurate contro il terremoto sono un migliaio. Un piccolo sisma di qualche settimana fa nel beneventano ha prodotto una richiesta di risarcimento da parte di un’azienda di 150 milioni. L’assicurazione sta chiudendo a 60-65. Anche qualche comune è assicurato contro le catastrofi. Per esempio, Firenze: la bomba agli Uffizi portò nelle casse della città sette miliardi.

Assicurazioni Le assicurazioni italiane sono riunite in un’Associazione che si chiama Ania. All’Ania piacerebbe una legge che rendesse obbligatoria l’assicurazione contro i terremoti. D’altra parte assicurare contro i terremoti è quasi un mestiere a parte: in Italia gli agenti capaci di farlo sono appena 140 (riuniti anche questi in un’associazione: si chiama Preas). Supponiamo che uno volesse assicurare Assisi. Quanto dovrebbe pagare di premio? Risponde Giuseppe Orsi, amministratore delegato della Siad (gruppo Generali).
«Impossibile dirlo».
È una domanda che potrebbe esservi fatta se passasse la legge che vi piace tanto.
«La legge sull’assicurazione obbligatoria ha bisogno di questa pre-condizione: da un certo livello di spesa in poi la copertura deve essere assicurata dallo Stato. Le cifre sono troppo alte».
Perché dovrebbe essere obbligatoria?
«Perché senza l’obbligo, le polizze sarebbero stipulate solo da comuni ad alto rischio e noi invece abbiamo bisogno anche di una clientela a rischio basso o pressoché inesistente per riassicurarci a nostra volta».

Umbria e Marche Gli esperti valutano il terremoto di Umbria e Marche della settimana scorsa abbastanza trascurabile. Bisogna mettersi nella loro ottica: ci sono ogni anno nel mondo un milione di terremoti. I terremoti del quinto grado della scala Richter sono cento-centocinquanta. Cioè, uno ogni tre-quattro giorni. La modestia dell’evento che ha fatto lacerare le vesti a tutta la stampa italiana sta anche nel numero dei morti: undici, di cui due per infarto e quattro per essersi andati a mettere volontariamente sotto una vòlta che stava per cadere ed infatti è caduta. I danni materiali sono più gravi perché le case e le chiese colpite erano costruite male. Ma anche qui può essere utile tener conto di alcuni dati e concetti generali. Per primo questo, che sta sul frontespizio di tutti i trattati: "I disastri sono inevitabili" (concetto durissimo da far accettare in Italia). E per secondo quest’altro: i danni provocati dai terremoti in tutto il mondo e specialmente in Occidente (e dunque anche in Italia) saranno sempre più gravi perché sempre più popolazione mondiale è destinata a concentrarsi nelle città.

Rousseau «Dopotutto non è la natura che ha ammucchiato là ventimila case di sei-sette piani» (Jean-Jacques Rousseau a proposito del terremoto di Lisbona del 1755).

Sempre peggio Infatti, dal 1960 ad oggi il numero di persone colpite da calamità naturali è andato aumentando del 6 per cento l’anno. E si capisce: un terremoto nel deserto, per quanto squassante, non farà nessuna vittima e non provocherà alcun crollo. Un sisma modesto in un centro abitato avrà invece effetti devastanti. Dunque, le conseguenze dei terremoti sono proporzionate al numero di persone che abitano in città. E da questo punto di vista i numeri parlano chiaro: nel 1950 poco più del 70 per cento dell’umanità viveva in campagna. Oggi è il 40 per cento scarso. «Nelle regioni più ricche la popolazione urbana è raddoppiata (da 447 a 838 milioni), mentre nelle aree meno sviluppate essa è quadruplicata: da 286 milioni a 1,14 miliardi di persone. Entro l’anno 2000, circa il 77% dei latino-americani, il 41% degli africani e il 35% degli asiatici vivranno nelle città. La crescita demografica urbana dei paesi in via di sviluppo è pari al 3,6% all’anno. Nei paesi industrializzati, di converso, la popolazione urbana aumenta solo dello 0,8% annuo. In soli sessant’anni la popolazione urbana dei paesi in via di sviluppo è aumentata di 10 volte: da circa 100 milioni nel 1920 a più di un miliardo nel 1980». Così un rapporto della World Commission for Environment & Development.

Lisbona «1° novembre 1755, un sabato, verso le 9.40 del mattino. Le chiese andavano riempiendosi per la festività di Tutti i Santi, quando la terra proruppe in un terrificante boato seguito da tre scosse in rapida successione, mentre cavalloni giganteschi si abbattevano sull’estuario del Tago, travolgendo il Terreiro do Paço. In pochi attimi il centro urbano fu ridotto a un cumulo di rovine (l’intera sequenza si svolse in meno di nove minuti), ma il peggio doveva ancora venire perché nei quartieri settentrionali divamparono diversi incendi che un rinforzo di vento propagò al resto della città, facendola ardere ininterrotamente per sei giorni. Nel frattempo erano avvenuti nuovi scotimenti. Uno violento aveva avuto luogo la mattina stessa del 1° novembre, alle 11, seguito da un incessante moto vibratorio durato ventiquattro ore. Quattro repliche si susseguirono in novembre, e molte di più in dicembre, raggiungendo un totale di 500 fino al settembre dell’anno dopo» (Solbiati-Marcellini, Terremoto e società, Garzanti, 1983). I morti furono 60 mila solo perché le scosse cominciarono di mattina troppo presto: altrimenti sarebbero stati 90.000. Ma sono interessanti le conseguenze di quella catastrofe: fuggiti la corte e il nuovo re Giuseppe I, che per lo spavento visse vent’anni in baracca, il marchese di Pombal si impadronì del potere e, facendosi forte della ricostruzione, mise in piedi un paese completamente diverso: nuovi piani regolatori, trasformazione dell’artigianato in industria (l’edilizia, per far prima e risparmiare, imparò a lavorare a moduli), emarginazione della nobiltà imbelle e trionfo dell’abbinata impresa-lavoro. Si dice che il Portogallo moderno è ancora oggi quello che Pombal ha voluto. Stessa cosa in Calabria nel 1783: sisma spaventoso (trentamila morti) e palla colta al volo dal principe Pignatelli, inviato del re di Napoli Ferdinando IV, per sbarazzarsi del clero, incamerare rendite e beni ecclesiastici, creare una cassa sacra e con quella finanziare uno sviluppo che, fatte le debite proporzioni, resta memorabile ancora oggi. Era successo qualcosa di analogo anche a Catania novant’anni prima.

Il terremoto conviene Poiché dalle tasche degli italiani saranno prelevati ottocento miliardi a beneficio dell’Umbria e delle Marche sarà bene tenere presente questi esempi storici, i quali mostrano che esiste anche una "convenienza della catastrofe". In un certo posto occorre ricostruire, arriva denaro, la gente si dà da fare, tutto l’insieme fa nascere una situazione migliore della precedente, si crea - come si dice - sviluppo. E’ sempre così? No, purtroppo. Fu così in Friuli, non fu così a Napoli e in Irpinia.

Friuli Parliamo del Friuli col rettore dell’Università di Udine, Marzio Strassoldo, economista, e con suo fratello Raimondo, docente universitario, sociologo e già titolare della cattedra di Sociologia dei disastri.
È vero che il cosiddetto fenomeno del Nord-Est comincia col terremoto del ’76?
«Questo è esagerato, dato che il terremoto ha riguardato un quarto del Veneto e segni di sviluppo erano senz’altro presenti già negli anni Sessanta. Però è vero che il sisma è stato un formidabile propellente».
Qualche cifra.
«La disoccupazione, da una quota del 7-8 per cento, scese al livello fisiologico del 3-4 (la disoccupazione zero non esiste). Cominciò un flusso migratorio all’inverso: non solo i friulani non andavano più a lavorare all’estero (questo accadeva già dal ’71) ma molti stranieri vennero a lavorare qui».
L’immigrazione dal Terzo mondo cominciò allora?
«Sì, allora».
Come si spiega questo boom?
«Ma intanto tenga conto di questo: se su cento lire di danni, lo Stato ne metteva sessanta, il privato ne metteva altre sessanta. Una fabbrica che prima valeva cento, dopo valeva centoventi. Ci metta il rinnovo completo delle tecnologie. E aggiunga che le provvidenze furono destinate prima all’industria - cioè al tessuto economico - e poi alla ricostruzione delle abitazioni. I terremotati passarono l’inverno nelle case della costa, costruite per le vacanze e perciò vuote. Infine, fu straordinaria l’autoimprenditorialità: i friulani si fecero muratori, carpentieri e quant’altro e si ricostruirono tutto da sè. Le grandi imprese son venute, ma in definitiva hanno ricoperto un ruolo modesto».
La criminalità?
«Niente, insignificante».

Napoli Pomicino dice che gli indici della disoccupazione nelle zone interessate calarono di due punti grazie al terremoto. Giuseppe Luongo, ordinario di Fisica del vulcanismo all’università di Napoli e già senatore del Pds dice che, se il dato è vero, va considerato effimero.
Un terremoto può essere volano dell’economia?
«Sì, può».
Nel Sud, il terremoto del 1980 è stato un volano dell’economia?
«No, nel Sud no».
Perché?
«La catastrofe ha un valore propulsivo se colpisce un territorio economicamente attivo. Arrivano i capitali e c’è una struttura che sa farli fruttare. Allora sì: non parlo solo di mentalità, parlo per esempio delle vie di comunicazione, dei rapporti col resto del mondo e di quella rete di medie e piccole aziende che fa la ricchezza vera di una regione. La nostra debolezza rese inevitabile un arrivo delle imprese settentrionali. Per il 70 per cento il terremoto, come business, ha riguardato loro».
E le imprese meridionali?
«Monopoliste in certi casi, come per esempio nell’affare del trasporto del cemento. Furbe, in altri: le immobiliari profittarono del sisma per mettere le mani sul centro. E in mano alla criminalità troppo spesso. Veda il caso di Ponticelli, un quartiere-città fino a ieri totalmente in mano alla malavita».

Futuro L’ideale sarebbe considerare i terremoti inevitabili e anticipare, governandole, le occasioni di sviluppo legate alla catastrofe. Se la distruzione da terremoto fa ricostruire, e dunque aiuta l’edilizia, il consolidamento degli edifici può essere visto come uno "sviluppo da terremoto a priori": aiuta l’edilizia lo stesso e può evitare qualche morto. E’ vero che la cifra da sborsare per questo oscilla intorno ai centoventimila miliardi. Però dal ’45 al ’90 lo Stato ha speso per catastrofi naturali 142 mila miliardi, cioè 273 miliardi al mese, nove miliardi al giorno. E molto di più ultimamente: 22 miliardi al giorno nel periodo 1980-1989. Sono dati del Servizio Geologico Nazionale.

Conclusione La conclusione è questa: poiché Africa ed Europa tendono ad avvicinarsi, il bacino del Mediterraneo tende a chiudersi. Nello stesso tempo l’Atlantico e il Tirreno tendono ad allargarsi. Il Tirreno si muove a una velocità pari a un centimetro l’anno. Ergo: i terremoti da noi sono davvero inevitabili. Consoliamoci con questo pensiero dell’abate Galiani: "Molte volte le calamità distruggono le nazioni senza risorgimento, ma talvolta sono principio di risorgimento e di riordinamento di esse. Tutto dipende da come si ristorano"
Giorgio Dell’Arti