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 2014  luglio 03 Giovedì calendario

LO SCRITTORE CHE COPIA SE STESSO MA NON SA COPIARE TOLSTOJ


La cosa che mi ha colpito di più, del romanzo di Antonio Scurati Il padre infedele (nella cinquina dello Strega), non è il fatto che qualche pagina Scurati l’ha ripresa da un libro che ha scritto qualche anno fa, ma il fatto che è un romanzo pieno di Noi, pieno di cose che succedono ai protagonisti e, secondo Scurati, succederebbero anche a tutti gli altri perché sono esemplari; il protagonista del romanzo è un cuoco, laureato in filosofia, che guardando una pubblicità della Barilla decide che si deve sposare e, quando trova una ragazza che gli piace, si convince di esserne innamorato e le promette che aprirà «un nuovo ristorante, di pesce ovviamente», che si arricchirà e che «per il giorno del nostro fidanzamento ufficiale le avrei cucinato una cernia da venti chili e le avrei regalato un diamante da diciotto carati». Secondo Scurati «Se nell’Ottocento il conte Tolstoj scrisse che tutte le famiglie felici si somigliano ma ogni famiglia è infelice a modo suo, oggi, al principio del ventunesimo secolo, l’unica famiglia felice è quella dei frollini con la granella di zucchero».
Che è una riflessione che qualcuno può forse trovare interessante, e che conforta l’idea di Scurati che tutte le famiglie siano infelici come la famiglia che descrive lui, però non è quello che dice Tolstoj, che dice una cosa diversa, cioè: «Tutte le famiglie felici sono simili tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo». Dal che non si deduce, come dalla frase di Scurati, che tutte le famiglie siano infelici, ma, appunto, un’altra cosa. E, lo dico per inciso, è singolare che Scurati venga accusato di copiare se stesso mentre non copia neanche quando cita Tolstoj, lo modifica a suo uso e consumo. Il suo protagonista, a un certo punto, dice: «Mentre scrivo queste parole mi rendo conto che avrei voluto adottare un tono molto diverso, più drammatico, per raccontare la genesi del mio amore per Giulia. Devo invece arrendermi al comico. Evidentemente, di questi tempi, nessuna storia d’amore si sottrae al ridicolo». E anche questa è una cosa con la quale non so se posso essere d’accordo, e mi viene in mente una poesia di Mariangela Gualtieri che comincia così: «Sii dolce con me. Sii gentile. | È breve il tempo che ci resta. Poi | saremo scie luminosissime. | E quanta nostalgia avremo | dell’umano. Come ora ne | abbiamo dell’infinità. | Ma non avremo le mani. Non potremo | fare carezze con le mani. | E nemmeno guance da sfiorare | leggere. | Una nostalgia d’imperfetto | ci gonfierà i fotoni lucenti. | Sii dolce con me. | Maneggiami con cura». Amore, dei nostri tempi (la poesia è pubblicata nel 2010 in Bestia di gioia), bellissimo, non comico: evviva Mariangela Gualtieri.
Al protagonista del libro di Scurati a un certo momento viene da fare un discorso a suo babbo e da dirgli: «Vedi, papà, tu ci devi capire. Siamo una generazione deprivata. Non disillusa e nemmeno disincantata perché non abbiamo mai avuto il tempo per autentiche illusioni né per alcun preliminare incanto. Abbiamo quarant’anni e siamo degli adolescenti deprivati. Non devi essere severo con noi, papà. Ciò che ci corrode è la discrepanza tra le aspettative lungamente coltivate da un’infanzia e un’adolescenza satolle e le reali acquisizioni di un gramo presente. Soffriamo, per questo, della sindrome del passato remoto». Che, non so, ma se io l’avessi fatto a mio babbo, un discorso così, mio babbo credo che mi avrebbe risposto: «Ah, siete una generazione deprivata? Non disillusa e nemmeno disincantata perché non avete mai avuto il tempo per autentiche illusioni né per alcun preliminare incanto? Avete quarant’anni e siete degli adolescenti deprivati? Non devo essere severo con voi? Ciò che vi corrode è la discrepanza tra le aspettative lungamente coltivate da un’infanzia e un’adolescenza satolle e le reali acquisizioni di un gramo presente? Soffrite, per questo, della sindrome del passato remoto? Ma pensa», credo mi avrebbe detto mio babbo se gli avessi fatto un discorso del genere, ma di preciso non lo so perché io, un discorso del genere, a mio babbo, non gliel’ho mai fatto e non mi è mai venuto in mente di farglielo e non mi sarei attentato probabilmente per via del fatto che io ho qualche anno in più, di Scurati, sono del ‘63, lui è del ‘69, e ai miei tempi, adesso io banalizzo, ma un po’ era così, si pensava che se uno non riusciva a fare le cose, non era colpa dei tempi, era colpa sua.
Anche se parlare di tempi è un po’ complicato, e questa preoccupazione di Scurati di cogliere l’epoca, non la capisco neanche questa, e mi fa venire in mente un pezzetto dello scrittore russo Daniil Charms che dice: «Ho provato a cogliere l’attimo, ma non l’ho preso mi sono solo rotto l’orologio». Adesso so che non è possibile. Così come non è possibile «cogliere l’epoca», perché è come l’attimo solo più grossa. Un’altra cosa se dicessero: «Rappresenta quello che succede in questo momento». Questa è tutta un’altra cosa. Ecco, per esempio: un due tre. Non è successo niente. Ecco che ho rappresentato un momento in cui non succede niente».