Michele Brambilla, La Stampa 3/7/2014, 3 luglio 2014
«SALVIAMO LORO DALLE GUERRE MA ANCHE NOI DAI TERRORISTI»
L’ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, capo di stato maggiore della nostra Difesa, ci riceve in un giorno frenetico di riunioni, consultazioni, decisioni da prendere. Altri 45 morti nel Canale di Sicilia. Un’altra tragedia nel nostro mare. Sto per ringraziarlo per aver trovato un po’ di tempo per noi nonostante l’emergenza, ma subito mi rendo conto che l’emergenza, per quest’uomo, è la normalità. È lui, naturalmente, a sovrintendere a Mare Nostrum, l’operazione varata dal governo Letta lo scorso ottobre dopo i 366 morti di Lampedusa. Operazione doppiamente delicata: per le cose da fare e per le polemiche della politica. «È un’operazione militare e umanitaria», spiega.
Ammiraglio, forse molti pensano che sia solo umanitaria. Perché militare?
«Perché noi siamo nel Mediterraneo innanzitutto per stroncare un traffico immondo: per arrestare gli scafisti e per fermare le cosiddette navi-madre, quelle che arrivate a un certo punto scaricano i gommoni in mare. Più in generale, siamo lì a sorvegliare il mare in una situazione di crisi internazionale: ci sono rischi non solo di una massiccia immigrazione clandestina, ma anche di infiltrazioni terroristiche».
L’aspetto umanitario?
«Molto dipende dal fatto che oggi la migrazione verso l’Italia è cambiata. Il 60-70 per cento di coloro che tentano di raggiungere le nostre coste sono uomini donne e bambini che sfuggono alle guerre. Molti di coloro che viaggiano su quei terribili barconi non vengono qui per cercare un lavoro migliore. Spesso appartengono a ceti sociali elevati: ingegneri, medici, avvocati. Fuggono da Paesi dove rischiano la vita. E noi non possiamo rimandarli a casa».
Ma come facciamo a distinguere un rifugiato da un immigrato clandestino o peggio ancora da un terrorista?
«Ci sono varie tecniche per capire con chi abbiamo a che fare, e non è detto che le possiamo rivelare tutte. E gli interrogatori che i nostri funzionari di polizia svolgono immediatamente a bordo sono molto utili, ad esempio, per risalire agli scafisti».
L’Italia rischia l’arrivo di terroristi di Al Qaeda?
«L’intelligence non ha riscontrato ancora evidenze chiare. Ma alcuni indicatori confermano contatti tra scafisti e terroristi. E poi non è una questione semplice da decifrare: ci sono terroristi operativi e terroristi latenti. Voglio dire: ci sono persone che vengono ad esempio dal Mali intrise di una cultura fondamentalista: si presentano come rifugiati, ma poi non si sa come decideranno di comportarsi».
Risultati positivi su questi fronti?
«Dall’inizio dell’operazione abbiamo arrestato più di 180 scafisti e fermato quattro navi madre. Il traffico dall’Egitto si è quasi esaurito».
Ammiraglio, da quando c’è Mare Nostrum, gli arrivi in Italia sono aumentati.
«È vero. Ma l’aumento non è dovuto a Mare Nostrum: è dovuto alle crisi che stanno emergendo da tutte le parti. In Siria la situazione si è aggravata, e in Iraq sono avanzate le forze fondamentaliste».
Non pensa però che sapendo dell’operazione Mare Nostrum, molti si sentano incentivati a venire in Italia?
«Può essere vero che Mare Nostrum fa aumentare le speranze di chi parte. Ma allora? Se non ci fosse Mare Nostrum, li butterebbero in mare lo stesso. Resterebbero la disperazione, la necessità vitale di scappare, gli scafisti senza scrupoli».
Vi sentite soli, in questa immane opera di salvataggio e di salvaguardia dei confini?
«Non c’è dubbio, e non è un problema di finanziamenti per questa missione, che pure è molto costosa. L’Europa deve capire che le coste siciliane non sono il porto dell’Italia, ma di tutto il continente».
L’Europa non ha dato contributi?
«Sì, con Frontex. Ma li ha dati per i centri di accoglienza e per riportare a casa i clandestini. Ora però non è più solo una questione di controllo delle frontiere: è una questione di dimensioni ben più ampie. C’è il problema dei rifugiati, ed è un problema che non si risolve in mare: lo si deve risolvere sulle coste di partenza, non su quelle di arrivo. Ma per la Libia occorre un interlocutore istituzionale certo. Insomma ci sono milioni di persone costrette a scappare, e noi non possiamo respingerle. Credo che di una questione del genere dovrebbero occuparsi in tanti. Anche l’Onu».
A proposito di costi, in Italia cresce un diffuso sentimento popolare: visto che c’è la crisi, tagliamo le spese militari.
«Ci sono Paesi che hanno più o meno sviluppata la cultura della sicurezza. In quelli anglosassoni, ad esempio, l’opinione pubblica è più attenta ai problemi internazionali. Noi in Italia siamo un po’ ripiegati verso noi stessi».
La gente si chiede: che cosa ci stiamo a fare in Afghanistan e in Somalia?
«Lo so. Guardi: la Somalia, ad esempio, è due volte più lontana da noi che l’Afghanistan. Ma per noi è un pericolo molto più grande. In Somalia c’è un movimento di qaedisti più forte e pericoloso che in Afghanistan. Eppure si fatica a far capire che noi siamo là per difendere la sicurezza qua».
Ammiraglio, l’ultima questione che le pongo riguarda i nostri marò.
«Se me lo consente, anche questa vicenda ha ormai assunto il carattere di una questione umanitaria. I nostri marò sono tenuti in ostaggio da oltre due anni contro ogni regola del diritto internazionale. Neanche un delinquente può essere tenuto due anni senza processo e addirittura senza un capo di imputazione».
Che cosa farete per riportarli a casa?
«Il governo sta lavorando per stabilire un rapporto più fiducioso a livello governativo a prescindere da quello giuridico. Perché il punto chiave non è se i nostri marò sono colpevoli o no. Il punto chiave è che sono dei soldati, che erano là in servizio, e quindi devono essere giudicati nel loro Paese. Il governo è con noi nel voler tenere ben chiaro questo concetto della corretta giurisdizione».
Lei è andato a trovarli?
«Sì, e ho portato loro la nostra solidarietà e un riconoscimento ufficiale per aver tenuto un comportamento dignitoso e fiducioso nelle istituzioni. E questa fiducia noi non la vogliamo tradire».