Sergio Romano, Corriere della Sera 3/7/2014, 3 luglio 2014
Le guerre del XIX secolo furono piuttosto brevi: qualche settimana o qualche mese di operazioni militari, un armistizio, un trattato di pace con scambio di territori e indennizzi a carico dello Stato sconfitto
Le guerre del XIX secolo furono piuttosto brevi: qualche settimana o qualche mese di operazioni militari, un armistizio, un trattato di pace con scambio di territori e indennizzi a carico dello Stato sconfitto. La Grande guerra fu troppo lunga e cruenta perché tutti gli Stati, alla fine dell’ultima battaglia, potessero tornare alla normalità della pace. Mentre i vincitori conservarono il sistema istituzionale dell’anteguerra (monarchia o repubblica), gli sconfitti precipitarono tutti nel caos delle rivolte sociali, dei moti rivoluzionari, dei colpi di Stato e dei putsch militari. Fu questa la sorte della Russia zarista, quando la guerra non era ancora terminata, e più tardi della Germania, della Baviera, dell’Austria, dell’Ungheria e della Turchia ottomana. Nel 1919 l’Italia si colloca a mezza strada. Non è sconvolta da una rivoluzione, ha ancora un re e un Parlamento, siede con i vincitori al tavolo della pace. Ma nelle fabbriche si sciopera e nelle strade i reduci, quando indossano l’uniforme, vengono svillaneggiati e derisi. Vi fu un treno che attraversò il Paese, tra folle silenziose e commosse nelle stazioni dove fece sosta, per deporre la salma del Milite Ignoto sul monumento a Vittorio Emanuele II. Ma a differenza di ciò che accadde in altre capitali dei Paesi alleati, non vi fu a Roma una grande sfilata della vittoria con la partecipazione di tutte le forze armate. L’Italia aveva vinto, ma una parte del suo popolo sembrava convinta che la vera vittoria sarebbe giunta soltanto dopo un grande rivolgimento politico e sociale; mentre altri, soprattutto negli ambienti nazionalisti e militari, chiedevano che il governo rivendicasse con maggiore energia, insieme a tutti i territori adriatici promessi dagli Alleati a Londra prima dell’intervento italiano, la città di Fiume, un porto di lingua italiana, ma collocato in un territorio abitato da 200 mila croati. Nel 1919, quindi, l’Italia era divisa fra due fazioni: quelli che aspettavano la rivoluzione e quelli che rivendicavano il premio della guerra deplorando la «vittoria mutilata» (un frase coniata da Gabriele d’Annunzio in una «preghiera» del 1918). È questo il tema del libro di Marina Cattaruzza, apparso ora presso il Mulino, L’Italia e la questione adriatica . Fra il trattato di Londra dell’aprile 1915 e il crollo degli Imperi centrali nel novembre del 1918 erano accadute molte cose. Vi erano stati i 14 punti di Woodrow Wilson, un testo evangelico in cui il presidente degli Stati Uniti predicava l’autodeterminazione dei popoli e la diplomazia alla luce del sole. Vi era stato il patto di Roma dell’aprile 1918, a cui avevano partecipato tutte le nazionalità irredente dell’Impero austro-ungarico. Vi era stata infine la nascita del Regno dei serbi, croati e sloveni, che rivendicò per sé, sin dal suo primo vagito, tutti i territori asburgici sino alla Venezia Giulia e a una parte del Friuli. In questa nuova situazione, come ricorda Marina Cattaruzza, l’Italia cercò di rivendicare la Dalmazia (dove la maggioranza della popolazione era croata), in nome del trattato di Londra, e Fiume (dove gli italiani avevano creato un Consiglio nazionale e chiedevano l’annessione al Regno), in nome del diritto dei popoli all’autodeterminazione. Ma Wilson s’impuntò e respinse la richiesta italiana, sostenendo che Fiume era il porto naturale dei croati e, quindi, del nuovo regno jugoslavo. In questa situazione, mentre Vittorio Emanuele Orlando abbandonava la conferenza della pace e cedeva a Francesco Saverio Nitti la presidenza del Consiglio, l’Italia fu messa di fronte a un imbarazzante fatto compiuto. Un poeta armato, sempre alla ricerca di un palcoscenico nazionale e internazionale, credette di averlo trovato a Fiume. D’Annunzio marciò sulla città alla testa di una legione e vi fu accolto come un trionfatore. Molti di quei legionari erano volontari, accorsi da diversi orizzonti politici e geografici, ma altri erano disertori del Regio Esercito; e la presa di Fiume non sarebbe stata possibile, se parecchi comandanti dei corpi militari dislocati nella zona non avessero chiuso gli occhi e qualche generale (fra cui Pietro Badoglio) non avesse permesso l’invio di rifornimenti ai ribelli. Di fronte a questo ammutinamento il governo sarebbe dovuto intervenire con fermezza e restaurare l’ordine. Ma Nitti sperò di potere sfruttare l’«impresa» dannunziana per convincere gli Alleati ad ammorbidire le posizioni di Wilson e fu, in quel frangente, più scaltro che saggio. Marina Cattaruzza riesce a descrivere perfettamente un dramma che va in scena contemporaneamente a Fiume, dove d’Annunzio accende gli animi con la sua bellicosa oratoria; a Montecitorio, dove la Camera non riesce ad accordarsi su una linea politicamente realistica; a Washington, dove Wilson tratta l’Italia con un rigore puritano; e a Parigi, dove i primi ministri della Francia e della Gran Bretagna (Georges Clemenceau e David Lloyd George) si chiedono se l’Italia abbia ancora un governo o non sia sull’orlo di una guerra civile. La situazione cambiò quando Wilson, colpito da una trombosi, uscì di scena, e Nitti, dopo le elezioni politiche del 1919, cedette il governo a Giovanni Giolitti. Con il ritorno al potere di un uomo che non aveva voluto la guerra, e l’arrivo agli Esteri di Carlo Sforza, il nostro Paese cominciò a rinsavire. Invece di lasciare la partita nelle mani degli Alleati, i governi dell’Italia e della Jugoslavia decisero di pensare al loro futuro di Paesi uniti da uno stesso mare, piuttosto che perdere la pace concentrandosi sulla spartizione delle spoglie asburgiche. Il trattato che venne firmato a Rapallo, nel novembre 1920, lasciò la Dalmazia alla Jugoslavia, fissò il confine sul Monte Nevoso, dette Zara, alcune isole e l’Istria all’Italia, con norme che assicuravano garanzie alle comunità italiane. Restava al governo di Roma il compito ingrato di liberare Fiume dall’ingombrante presenza del poeta. Ma, dopo l’ultimatum di Giolitti, d’Annunzio non resisté alla tentazione del «gesto» e dichiarò guerra allo Stato italiano. Il capo del governo, tuttavia, lo prese alla lettera e dette ordine al generale Enrico Caviglia di passare all’azione. Quello del 1920, quindi, fu un «Natale di sangue». La questione adriatica fu risolta, almeno per il momento, ma nella società e nelle forze armate esistevano umori e turbolenze che non garantivano la stabilità del Paese. Nella vicenda di Fiume vi sono molti degli ingredienti che contribuiranno due anni dopo all’avvento del fascismo.