Marco Travaglio, il Fatto Quotidiano 3/7/2014, 3 luglio 2014
COSTITUENTI E COSTITUITI
Prima di usare i padri costituenti (quelli veri del 1946-’47) per fare da palo e tenere il sacco a chi vuole regalare l’immunità parlamentare ai consiglieri regionali e ai sindaci che la Casta nominerà senatori, non più eletti e quasi del tutto sprovvisti del potere legislativo, bisognerebbe almeno conoscere i lavori preparatori della Costituzione. E sapere a che cosa pensavano, auspicavano e temevano i 70 Costituenti quando discussero, scrissero e votarono l’articolo 68 della Carta sulle guarentigie dei parlamentari. Che alla fine suonava così: “I membri del Parlamento non possono essere perseguiti per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a procedimento penale; né può essere arrestato, o altrimenti privato della libertà personale, o sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, salvo che sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è obbligatorio il mandato o l’ordine di cattura. Eguale autorizzazione è richiesta per trarre in arresto o mantenere in detenzione un membro del Parlamento in esecuzione di una sentenza anche irrevocabile”. Il 29 ottobre ‘93, in piena Tangentopoli e dopo decenni di abusi, le Camere lasciarono intatto il primo comma (insindacabilità per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle funzioni) e riformarono gli altri: per le indagini e l’esecuzione di sentenze definitive fu tolta l’autorizzazione a procedere, che invece rimase per arresti, perquisizioni e altre limitazioni della libertà, e fu aggiunta per le intercettazioni e i sequestri di corrispondenza.
I costituenti iniziano a occuparsi dell’immunità in II Sottocommissione il 19 settembre 1946. Poco prima hanno discusso se non sia il caso di sottrarre alla giustizia domestica delle Camere la verifica sulla regolarità dell’elezioni dei singoli membri e di affidarla – come propone Costantino Mortati, sostenuto da Giovanni Leone e Aldo Bozzi – a un tribunale esterno di consiglieri di Stato, per “tutelare le minoranze da ogni possibile ingiustizia commessa a loro danno dalla maggioranza”. Il ricordo del fascismo è vivo e incombente. E la sacralità del Parlamento come palestra di democrazia non è ancora inquinata dagli abusi di Casta. Leone osserva: “La Camera, autolimitandosi sulla verifica dei poteri, darebbe al Paese un esempio di serenità e nobiltà di comportamento. Cioè che gioverebbe, non nuocerebbe al suo prestigio”. La proposta resta minoritaria, ma questo è lo spirito che anima i costituenti.
Anche sull’immunità, incombe il timore che una magistratura uscita intatta dal fascismo (mai epurata, dunque portata al conformismo verso il potere e omologata anche per estrazione sociale alle classi dominanti) diventi il braccio armato del governo contro minoranze e opposizioni. Tantopiù che all’epoca gli arresti e le perquisizioni posson essere effettuati direttamente dalle forze di polizia (dipendenti dal governo), senza l’ordine del giudice. Di qui la preoccupazione, espressa per esempio da Leone, che “un atto dell’autorità giudiziaria o di polizia possa essere ispirato da una valutazione o da un orientamento politico” per impedire “a un deputato la libera esplicazione del suo mandato parlamentare”. Vige il Codice Rocco, con ampi poteri alle polizie (con facoltà di fermo) e con il processo inquisitorio (il giudice istruttore dominus delle indagini, affiancato dal pm, e le difese in soggezione). Molti costituenti sono allarmati dal potere dell’“agente di pubblica sicurezza” di dare “la prima valutazione dei reati al fine dell’arresto in flagranza”. Perciò stabiliscono che i parlamentari colti in flagranza di reato possano essere arrestati solo per i delitti che prevedono l’arresto obbligatorio, e in seguito la Camera possa valutare la fondatezza o meno della cattura. Emilio Lussu però precisa: “L’essenziale è che il deputato non commetta nessun delitto; ma, se ne commette, deve ricadere sotto la legge comune e non godere di una situazione di privilegio”.
Umberto Nobile, a scanso d’equivoci, afferma: “L’immunità non deve incoraggiare i deputati a perdere il dominio di se stessi e indurli così ad atti inconsulti: ogni deputato dev’essere di esempio agli altri cittadini non solo nella sua condotta politica, ma anche negli atti della sua vita privata”. Tutti pensano a delitti comuni, d’impeto o di violenza o di sangue, nel corso di manifestazioni e scontri politici particolarmente accesi; non certo a quelli tipici dell’uomo di potere: tipo corruzioni, malversazioni, frodi fiscali, collusioni mafiose (eventualità che non albergano neppur lontanamente nelle menti dei Costituenti).
Petrassi, per esempio, teme che “l’esclusione dell’arresto in flagranza produca l’effetto di esporre il deputato al pericolo di un linciaggio”. E il presidente della sottocommissione La Rocca chiarisce che “il principio dell’immunità parlamentare non dev’essere ispirato al criterio di creare una posizione di privilegio al deputato nei confronti delle supreme esigenze di giustizia, bensì a quello di garantirlo da una eventuale sopraffazione di carattere politico”. Cioè “non significa che, qualora un deputato diventi un criminale, la giustizia non debba avere il suo corso”.
Poi fa qualche esempio concreto: “Evitare che in un periodo di lotte sociali, quali quelle che si svolgono pressantemente, un deputato possa essere vittima di una provocazione”, altrimenti “ogni deputato potrebbe diventare preda di un agente provocatore... Può sempre darsi il caso che un deputato sia aggredito e che, per difendersi, compia appunto un atto assai grave”. Leone cita il caso di “perquisizioni personali che potrebbero avvenire in strada, in occasione di un furto, di un tumulto od altro, senza che possa attendersi l’autorizzazione della Camera”.
Lami Starnuti fa un altro esempio: “L’offesa per mezzo della stampa alla persona del Presidente della Repubblica” è un delitto di opinione considerato ancora talmente grave da essere “di competenza dell’Assise”, che “consentirebbe l’arresto per un delitto tipicamente politico”. Mannironi ricorda “che nel passato gravi abusi furono commessi da parte delle autorità di pubblica sicurezza” e che a quel tempo è possibile financo “un arresto per un giudizio di diffamazione”. Ma guai a intendere l’immunità come uno scudo per coprire gravi delitti: la Costituzione “è un testo che dovrà essere conosciuto dal popolo” ed era bene chiarire “all’uomo comune che il deputato non è sottratto all’arresto, almeno per fatti di una grave entità”. “Basterebbe preoccuparsi – chiosa Ravagnan – soltanto di garantirlo dagli arresti arbitrati e dalle sopraffazioni politiche”. Leone e Calamandrei tengono a precisare che i cittadini devono comunque potersi “difendere dalle offese di un deputato” e “dai gravissimi danni di una diffamazione per mezzo di un discorso in Assemblea”. Infatti La Rocca chiarisce che l’insindacabilità per le opinioni del parlamentare vale solo quando parla “nell’esercizio delle funzioni”, quelle “che si svolgono nella Camera”, non fuori.
Il 19 dicembre 1946 il dibattito prosegue nell’Assemblea plenaria. E lì Luigi Einaudi sostiene l’opportunità che la Camera non metta becco negli arresti di parlamentari per “un reato estraneo alla politica”. Bozzi si preoccupa che un divieto troppo vago di perquisire un parlamentare incoraggi i delinquenti a “cercare asilo nella casa del deputato”. Il voto definitivo sull’art. 68 (che ancora porta il numero 65) avviene nella seduta del 10 ottobre 1947. Lì il socialista Stampacchia ricorda che occorre stabilire l’autorizzazione a procedere anche per le perquisizioni personali (non solo domiciliari), rievocando le sue battaglie di antifascista, “allorché lo sbirro frugava sulla persona del perquisito, mettendogli le mani addosso per verificare se per caso non vi fosse il contrabbando”.
E il presidente della commissione per la Costituzione, Meuccio Ruini, aggiunge che l’arresto del deputato senz’autorizzazione va consentito solo “quando il colpevole è colto proprio nell’atto di commettere il reato”, e non nei casi di “quasi-flagranza, come quando il colpevole fugge inseguito dal pubblico clamore”. Poi avverte che “la Costituzione non è soltanto un codice od una legge, è qualcosa di più: le sue parole hanno un valore che è anche etico politico, di portata giuridica, ma in un senso più ampio”.
Voci, linguaggi e pensieri di un’altra Italia. Dove nessun padre costituente può mai immaginare un parlamentare ladro o mafioso, e men che meno l’abuso dell’immunità per salvarlo dalla galera. Tantopiù se nessuno l’ha eletto. E se si è fatto nominare senatore proprio per farla franca.
Marco Travaglio, il Fatto Quotidiano 3/7/2014