Arnaldo Benini, Il Sole 24 Ore 3/7/2014, 3 luglio 2014
ONDA MORTALE DI ALZHEIMER
Un’indagine recente (Neurology 82/12, 25 marzo 2014) informa che, negli Stati Uniti, la malattia di Alzheimer (Alzheimer Disease, AD) non è più la sesta, ma la terza causa di morte, dopo i disturbi cardiaci e i tumori maligni. Il fattore che predispone all’AD è certamente l’invecchiamento. Più di mezzo milione di americani sopra i 75 anni sono deceduti di AD nel 2010. Il rischio di ammalare di AD dopo i 65 anni è superiore al 35 per cento. La sopravvivenza, dopo che è stata posta la diagnosi, è, in media, di 3,8 anni (da 3 a 9). La percentuale di rischio è per altro artificialmente abbassata dalla morte prima che la AD si manifesti e dalle molte volte in cui la AD non è riconosciuta o registrata.
Secondo il dipartimento di economia delle Nazioni Unite, nei paesi sviluppati il numero dei vecchi supererà quello dei giovani nel 2050. Questo trionfo della modernità e del benessere è minacciato da quel che è chiamato «a greying tsunami», uno tsunami della canizie, per le condizioni sociali e affettive in cui verranno a trovarsi la maggioranza dei vecchi e per l’aumento esponenziale di AD. Dall’AD si salvano i paesi poveri, perché la povertà previene efficacemente la longevità e quindi le atrocità della tarda vecchiaia e della demenza senile. Quando, nel 2002, l’antropologa Margaret Lock, dell’università McGill di Montreal, prese a studiare l’AD, fu sorpresa che, dopo quasi un secolo dalla prima descrizione clinica e anatomopatologica, ancora non si sapesse esattamente «che cos’è un cervello con l’AD», nonostante gli immensi investimenti nella ricerca, l’impegno di legioni di studiosi in tutto il mondo, e migliaia di pubblicazioni, molte delle quali in riviste di grande rigore. Tranne che dei pochi casi ereditari, non si sa nulla della causa o delle cause dell’AD, e quindi nulla di prevenzioni e terapie. La parte centrale dello studio è dedicata alle placche di amiloidi (proteine di scarto) fra i neuroni, che, ancora oggi, nonostante dubbi e prove contrarie, sono considerate le lesioni caratteristiche dell’AD che provocherebbero la morte in massa di neuroni e sinapsi. Studi recenti mettono in dubbio che la morte dei neuroni sia dovuta alle placche.
È difficile, dopo decenni di studi e di investimenti in una direzione, cambiare strada, e così la Lock parla di «Amyloid Mafia» di molti ricercatori, che ne farebbero una questione di fede. Oggi si può dire con sufficiente certezza che le amiloidi e le altre placche (le tau), da sole, non causano l’AD, perché esse si trovano, anche in gran quantità, in cervelli perfettamente funzionanti. Oltre cento esperimenti clinici per bloccare lo sviluppo delle placche non hanno sortito alcun risultato. Delle tau vengono descritte sei isoforme, alcune delle quali sarebbero addirittura utili ai nuclei dei neuroni in cui si trovano. La difficoltà della ricerca è confermata da un esempio recente. Un gruppo di ricercatori di Harward ha comunicato (Nature 27 marzo 2014) di aver trovato che nei cervelli con AD manca una sostanza (chiamata REST) che proteggerebbe i neuroni, contribuendo alla longevità e alla prevenzione degli effetti nocivi delle placche. Una significativa diminuzione di questa sostanza sarebbe presente già all’inizio dei sintomi dell’AD. Nello stesso fascicolo di Nature la neuroscienziata milanese Elena Cattaneo fa presente ai colleghi americani che già due anni orsono è stata dimostrata la presenza in eccesso di REST in un’altra tremenda lesione neurodegenerativa, la malattia di Huntington, per cui il suo effetto protettivo è tutt’altro che sicuro. La Lock tratta in esteso l’uso ancora limitato, ma in espansione e molto problematico dal punto di vista etico, dei così detti marcatori, cioè di reperti nel liquido cerebrospinale e in particolari visualizzazioni del cervello, che rivelano la presenza di placche, anni prima dell’insorgenza, per niente sicura, della demenza. Dal momento che non si conoscono misure preventive e che non si può prevedere quando e se i disturbi insorgeranno, quale vantaggio porta la diagnosi preclinica a chi, sano di mente, si sottopone a queste indagini, spesso perché in famiglia ci sono o ci sono stati casi di demenza? L’unica conseguenza del valore preventivo nullo dei marcatori, ha detto qualcuno, è di aumentare il numero dei depressi e dei suicidi. I capitoli centrali si occupano degli aspetti genetici dell’AD. Esiste, probabilmente, una rara forma ereditaria, che, a differenza dei casi più frequenti, si manifesta spesso prima dei 30 anni. Anche i dati genetici sono discordanti. La Lock riporta il parere di coloro che ritengono l’AD non tanto una malattia, intesa come deviazione del corso naturale, quanto piuttosto la conseguenza della lunghezza della vita, geneticamente prestabilita, dei neuroni e quindi delle sinapsi, diversa da persona a persona. Se così fosse, l’AD sarebbe probabilmente incurabile. Se si pensa allo sviluppo, nello stesso secolo, della fisica, dell’astrofisica, dell’informatica, della genetica, dell’infettivologia, dell’oncologia, vien fatto di pensare che il mistero ancora fitto dell’AD è il maggior fallimento della scienza, e cioè della ragione, nella ricerca della malattia che la distrugge e che costituisce una delle minacce più gravi all’umanità. Il libro della Lock è la storia dettagliata e attendibile di questa débâcle. Di fronte all’incertezza di tutte le ipotesi, l’autrice commette l’errore di suggerire una visione della malattia mentale diversa da quella fisica, da cui la psichiatria si è congedata da anni. Le riflessioni del filosofo Alva Noë, molto citato, per il quale noi non siamo il nostro cervello, non aiutano a capire la AD. È indispensabile che gli studi con la metodologia della scienza continuino, con le revisioni che essa comporta. Per ora, e certamente per anni, l’AD sarà un problema sociale sempre più pesante.