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 2014  luglio 03 Giovedì calendario

A CACCIA DELLA VITA OLTRE LA TERRA


Un segnale elettronico emesso dal Jet Propulsion Lab di Pasadena, in California, arriva a un rover automatico aggrappato alla parte inferiore della lastra di ghiaccio spessa 30 centimetri che ricopre un lago dell’Alaska. Il faretto del rover comincia a brillare. «Funziona!», esclama John Leichty, un giovane ingegnere del JPL, che se ne sta acquattato in una tenda lì vicino, sul lago ghiacciato. Non sembra una svolta tecnologica epocale, eppure potrebbe essere il primo piccolo passo verso l’esplorazione di un lontano satellite.
Oltre 7.000 chilometri più a sud, in Messico, la geomicrobiologa Penelope Boston avanza a fatica nell’acqua torbida che le arriva fino alla caviglia, nel buio di una grotta a che si trova a più di 15 metri sotto terra. Come gli altri scienziati che lavorano con lei, Boston indossa un autorespiratore professionale e porta con sé una bombola di riserva per difendersi dai gas velenosi – acido solfidrico e monossido di carbonio – che spesso invadono la cavità. L’acqua che le scorre intorno ai piedi contiene acido solforico. All’improvviso la sua lampada frontale illumina una gocciolina allungata di fluido denso e semitrasparente che cola dalla parete di fragile roccia calcarea. «È carino, no?», esclama la studiosa.
Questi due siti – un lago artico ghiacciato e una grotta tropicale tossica – potrebbero fornire indizi preziosi per la soluzione di uno degli enigmi più antichi e affascinanti: c’è vita al di fuori della Terra? Su altri mondi, che si trovino nel nostro Sistema Solare o in orbita attorno a stelle lontane, è possibile che alcune forme di vita si siano adattate a sopravvivere in oceani coperti di ghiaccio, come quelli di Europa, uno dei satelliti di Giove, o in cavità sigillate piene di gas, che potrebbero essere abbondanti su Marte. Se si riuscissero a isolare e identificare organismi che, sulla Terra, prosperano in simili ambienti estremi, la ricerca della vita extraterrestre farebbe un passo avanti.
È difficile indicare il momento esatto in cui la ricerca della vita nello spazio è uscita dall’ambito della fantascienza per diventare scienza. Ma una pietra miliare fu una riunione organizzata nel 1961 da Frank Drake, un giovane radioastronomo che si era messo in testa di provare a captare segnali radio di origine aliena. All’epoca la ricerca di intelligenza extraterrestre (SETI nell’acronimo inglese) «era praticamente un tabù», ricorda Drake, che oggi ha 84 anni. Ma, con l’autorizzazione del direttore del suo laboratorio, lo studioso riunì un gruppetto di astronomi, chimici, biologi e ingegneri per discutere di quella che oggi si chiama astrobiologia (o esobiologla), la scienza che studia la vita al di fuori della Terra. In particolare, Drake voleva che gli esperti lo aiutassero a decidere quanto avesse senso dedicare significativi tempi di osservazione dei radiotelescopi alla ricerca di trasmissioni extraterrestri e quale potesse essere la strategia migliore da seguire. «Quante civiltà aliene potrebbero ragionevolmente esistere?», si chiese. Così, prima che arrivassero gli ospiti, scribacchiò un equazione sulla lavagna.
Quell’appunto, oggi diventato celebre con il nome di equazione di Drake, delinea un metodo per rispondere a quella domanda. Si parte dal tasso di formazione di stelle di tipo solare nella Via Lattea e lo si moltiplica per la frazione di stelle attorno a cui orbitano sistemi planetari. Si moltiplica ancora il risultato per il numero di pianeti abitabili esistenti in media in ciascuno di questi sistemi, ossia pianeti che abbiano dimensioni simili alla Terra e orbitino alla giusta distanza dalla loro stella da avere un ambiente ospitale. Questo valore va poi moltiplicato per la frazione di quei pianeti dove effettivamente si evolve la vita, poi per la frazione di quelli dove si evolvono organismi intelligenti, poi ancora per la frazione di quelli dove potrebbe svilupparsi una tecnologia di trasmissione di segnali radio individuabili.
Passo finale: moltiplicare il numero di civiltà che dispongono di una tecnologia radio per il tempo medio in cui è probabile che esse continuino a trasmettere, o a sopravvivere. È possibile infatti che queste società tendano ad autodistruggersi pochi decenni dopo aver acquisito la tecnologia radio: in questo caso, in ogni dato momento ci sarebbe probabilmente poco da ascoltare.
L’equazione appariva sensata, ma cera un problema. Nessuno aveva la più pallida idea di quali potessero essere i valori di tutte quelle frazioni, tranne che per la prima variabile: il tasso di formazione delle stelle di tipo solare. Per il resto bisognava tirare a indovinare. Certo, se davvero gli scienziati fossero riusciti a captare un segnale radio extraterrestre, tutte queste incertezze sarebbero cadute. Ma fino a quel momento gli esperti – ognuno nel suo campo – avrebbero dovuto lavorare per assegnare un valore ai termini dell’equazione di Drake, trovando la percentuale di stelle di tipo solare dotate di pianeti o cercando di risolvere il mistero di come si sia originata la vita sulla Terra.
Dovevano passare più di trent’anni prima che gli scienziati potessero cominciare a inserire nell’equazione valori anche solo approssimativi. Nel 1995 Michel Mayor e Didier Queloz dell’Università di Ginevra identificarono il primo pianeta orbitante intorno a una stella diversa dal nostro Sole. Battezzato 51 Pegasi b, e situato a circa 50 anni luce di distanza dalla Terra, il pianeta è un grosso globo gassoso, grande all’incirca la metà di Giove, con un’orbita così vicina alla stella che il suo “anno” dura solo quattro giorni e la temperatura superficiale supera i 1.000 gradi. Naturalmente nessuno pensava che la vita potesse attecchire in condizioni così infernali, ma quella prima scoperta fu una svolta epocale. L’anno dopo, alla San Francisco State University, l’équipe guidata da Geoffrey Marcy individuò un secondo e poi un terzo pianeta extrasolare. Fu l’inizio di un diluvio di scoperte. A oggi è confermata l’esistenza di oltre 2.000 esopianeti di dimensioni molto variabili, da quelli più piccoli della Terra a quelli più grandi di Giove. Diverse altre migliaia di possibili pianeti – individuati soprattutto grazie all’elevata sensibilità del telescopio spaziale Kepler, operativo dal 2009 – attendono la conferma.
Nessuno di questi pianeti è un vero gemello della Terra, ma gli scienziati sono sicuri che non dovremo aspettare molto per trovarne uno. Secondo una stima recente, pianeti abitabili simili alla Terra dovrebbero orbitare intorno a più di un quinto delle stelle di tipo solare. Statisticamente, il più vicino potrebbe trovarsi a soli 12 anni luce di distanza dalla Terra; praticamente a due passi, in termini cosmici.
Ma c’è di più: in anni recenti i cacciatori di pianeti si sono resi conto che non c’è motivo di limitare la ricerca alle stelle di tipo solare. «Al liceo ci insegnavano che la Terra orbita intorno a una stella di tipo molto comune, ma non è vero», spiega David Charbonneau, astronomo di Harvard. In realtà, circa 1’80 per cento delle stelle della Via Lattea è rappresentato da corpi piccoli, freddi e rossastri, detti nane rosse o nane M. Se un pianeta simile al nostro orbitasse intorno a una nana M alla distanza giusta – minore di quella fra la Terra e il Sole, altrimenti la sua temperatura sarebbe troppo bassa – la vita potrebbe svilupparsi su di esso con la stessa facilità che su un pianeta di tipo terrestre in orbita intorno a una stella come il Sole.
Oggi, inoltre, gli scienziati non credono più che un pianeta debba avere dimensioni paragonabili a quelle della Terra per essere abitabile. «Per me va bene qualsiasi grandezza compresa tra una e cinque masse terrestri», sostiene Dimitar Sasselov, anche lui astronomo a Harvard. Insomma, è probabile che la varietà dei pianeti abitabili e delle loro stelle madri sia molto maggiore di quanto prevedessero le prudenti stime di Drake e degli altri partecipanti alla riunione del 1961.
Ma c’è di più: oggi sappiamo che gli organismi estremofili possono prosperare a temperature e in ambienti chimici molto più vari di quanto si potesse immaginare. Negli anni Settanta alcuni oceanografi, tra cui Robert Ballard, hanno scoperto le fonti idrotermali, fessure sul fondo dell’oceano da cui esce acqua surriscaldata che alimenta un ricco ecosistema batterico. Questi microrganismi – il cui metabolismo si basa sull’acido solfidrico o su altri composti sciolti nell’acqua – sono poi fonte di nutrimento per organismi superiori. Sono state anche scoperte forme di vita che prosperano nelle sorgenti calde, nei gelidi laghi sepolti a centinaia di metri di profondità sotto la calotta glaciale antartica, in ambienti molto acidi o molto alcalini, estremamente salati o altamente radioattivi, e persino in minuscole fessure nella roccia a più di 1.000 metri nel sottosuolo. «Sulla Terra questi sono ambienti di nicchia», spiega l’astronoma Lisa Kaltenegger, «ma su un altro pianeta potrebbero essere gli scenari dominanti».

SECONDO I BIOLOGI, L’UNICO FATTORE davvero indispensabile per la vita così come la conosciamo è la presenza di acqua allo stato liquido, visto che l’acqua è un potente solvente in grado di trasportare nutrienti disciolti a tutte le parti di un organismo. Tra i pianeti del Sistema Solare, Marte è quello su cui, un tempo, di sicuro scorreva acqua liquida: lo sappiamo fin dal 1971, quando la sonda Mariner 9 raggiunse l’orbita del pianeta. È dunque possibile che su Marte si fosse sviluppata la vita, almeno sotto forma di microrganismi; ed è concepibile che qualche forma di vita sia sopravvissuta nel sottosuolo, dove l’acqua potrebbe essere ancora nascosta. Un oceano di acqua liquida potrebbe celarsi sotto i ghiacci che ricoprono la superficie relativamente giovane di Europa, uno dei satelliti di Giove: ne sarebbero un indizio le spaccature visibili nel ghiaccio. Anche se il satellite si trova a circa 800 milioni di chilometri dal Sole, la sua acqua potrebbe non essere tutta allo stato solido.
Europa infatti è costantemente sottoposta alle forze di marea esercitate da Giove e dagli altri satelliti, le quali generano calore che potrebbe mantenere allo stato liquido l’acqua in profondità. In teoria, anche qui potrebbero esistere forme di vita.
Nel 2005 la sonda Cassini della NASA scoprì getti d’acqua che erompevano da Encelado, una delle lune di Saturno. Successive misurazioni hanno confermato la presenza di acqua sotto la superficie ghiacciata del satellite, ma gli scienziati non sanno ancora dire quanta ce ne sia, né se sia rimasta allo stato liquido per un tempo sufficiente a permettere l’esistenza di forme di vita. Ancora: su Titano, il più grande dei satelliti di Saturno, ci sono laghi e fiumi e cade la pioggia; un ciclo meteorologico che però non è basato sull’acqua ma su idrocarburi liquidi come metano ed etano. Forse anche lì esistono forme di vita, ma è difficile immaginare come potrebbero essere fatte.
Marte è molto più simile alla Terra di questi remoti satelliti, e molto più vicino. Praticamente tutte le missioni sul pianeta rosso hanno avuto come obiettivo la ricerca della vita. Oggi il rover Curiosity della NASA sta esplorando il cratere Gale, dove miliardi di anni fa c’era un immenso lago che, come si è ormai accertato, ospitava un ambiente chimico favorevole a eventuali microrganismi.
La ricerca di vita extraterrestre è l’obiettivo anche della spedizione sul lago Sukok, nell’Alaska settentrionale, guidata dall’astrobiologo del JPL Kevin Hand, e di quella di Penelope Boston e dei suoi colleghi alla Cueva de Villa Luz, la grotta tossica messicana. Entrambi i siti consentono di sperimentare nuove tecniche per la ricerca di vita in ambienti almeno a grandi linee simili a quelli che le sonde spaziali potrebbero trovare. Si cercano soprattutto le cosiddette firme biologiche: indizi visivi o chimici che segnalino la presenza di vita, passata o attuale, in luoghi dove gli scienziati non possono permettersi di effettuare sofisticati esperimenti di laboratorio.
Consideriamo la Cueva de Villa Luz. Le sonde orbitanti hanno dimostrato che anche su Marte esistono grotte, dove potrebbero essersi rifugiati i microrganismi quando il pianeta perse l’atmosfera e l’acqua di superficie, circa tre miliardi di anni fa. Questi cavernicoli marziani avrebbero dovuto sopravvivere affidandosi a una fonte di energia diversa dalla luce solare, come la sostanza densa che ha tanto affascinato Boston. Gli scienziati chiamano “snottiti” queste gocce abbastanza disgustose [snot in inglese significa “moccio”, ndt]. Nella grotta ce ne sono migliaia, di lunghezza variabile da un centimetro a più di mezzo metro: si tratta in realtà di biofilm, comunità di microrganismi uniti in una massa viscosa e appiccicaticcia.
I microrganismi della snottite sono chemiotrofi, spiega Boston, cioè si sostentano attraverso l’ossidazione di sostanze chimiche inorganiche. «Ossidano il solfuro di idrogeno, che è la loro unica fonte di energia, e producono questa sostanza appiccicosa». Oltre alle snottiti la grotta ospita una decina di altre comunità microbiche: «Ciascuna ha un aspetto esteriore distinto e si alimenta attingendo a nutrienti diversi», prosegue la studiosa. La comunità che l’ha più incuriosita non forma gocce o globi, ma traccia segni sulle pareti della grotta: punti, linee e persino intrecci di linee che somigliano quasi a geroglifici. Gli astrobiologi le chiamano “biovermicolazioni”.
I microrganismi che vivono sulle pareti delle rocce non sono gli unici a creare biovermicolazioni. «È un fenomeno rilevabile a molte scale diverse, generalmente in siti dove c’è carenza di qualche risorsa», spiega Keith Schubert, uno specialista di sistemi di imaging venuto a installare telecamere per il monitoraggio a lungo termine della grotta. Nelle regioni aride, anche erbe e alberi possono creare biovermicolazioni, e così pure le cosiddette soil crusts, comunità di batteri, muschi e licheni che coprono il suolo nelle zone desertiche. È ancora solo un’ipotesi, ma forse Boston, Schubert e gli altri scienziati che stanno studiando le biovermicolazioni hanno fatto una scoperta molto importante. Finora, come segnali della presenza di vita, gli astrobiologi hanno cercato soprattutto gas, come l’ossigeno, che vengono emessi dagli organismi terrestri. Ma l’ossigeno potrebbe essere solo una delle molte possibili firme biologiche.
«Quello che mi appassiona delle biovermicolazioni», sostiene Boston, «è che le ritroviamo su scale molto diverse, e negli ambienti più vari, ma sempre con caratteristiche molto simili». Secondo lei e Schubert, è assolutamente plausibile che queste tracce, che si formano secondo semplici regole di crescita e competizione per le risorse, siano, letteralmente, firme universali della vita. Nelle grotte, inoltre, le tracce rimangono anche dopo la morte delle comunità microbiche che le hanno prodotte. Se un rover dovesse individuare qualcosa di simile sulla parete di una grotta marziana, afferma Schubert, «sarebbe lì che dovremmo puntare l’attenzione».

AL CAPO OPPOSTO del continente nordamericano, gli scienziati e i tecnici che rabbrividiscono sul gelido lago Sukok sono impegnati in una missione simile. Lavorano in due differenti aree del lago, a circa un chilometro di distanza in linea d’aria. Poiché le bolle di metano che fuoriescono dal fondo del lago agitano l’acqua, in alcuni punti il ghiaccio si forma con difficoltà. Nello spostarsi con la motoslitta da un campo all’altro, gli scienziati devono seguire una via tortuosa e indiretta per evitare un tuffo potenzialmente mortale.
Le ricerche scientifiche su questo e altri laghi dell’Alaska, cominciate nel 2009, hanno come oggetto principale il metano. Questo idrocarburo è generato da microrganismi, detti appunto metanogeni, che decompongono la materia organica: la sua presenza su altri pianeti potrebbe dunque essere una firma biologica. Ma il metano può provenire anche da fonti non biologiche come l’attività vulcanica, e si forma naturalmente nell’atmosfera dei pianeti giganti come Giove, o di satelliti come Titano. È perciò fondamentale imparare a distinguere il metano di origine biologica dal suo cugino non biologico.
Coperto di ghiacci e ricco di metano, il lago Sukok è un buon punto di partenza per studiare Europa, il satellite di Giove. Per le sue ricerche di astrobiologia, Kevin Hand, capo della spedizione ed emerging explorer della National Geographic Society, preferisce Europa a Marte per un motivo fondamentale. Supponiamo, spiega, di trovare nel sottosuolo marziano organismi viventi basati sul DNA, come tutti quelli terrestri. Potrebbe significare che il DNA è la molecola universale della vita, il che è certamente possibile. Ma potrebbe anche indicare che su entrambi i pianeti la vita ha avuto un’origine comune. Sappiamo con certezza che sulla Terra sono caduti frammenti di roccia espulsi dalla superficie marziana in seguito a impatti con asteroidi. Ed è probabile anche il contrario, cioè che rocce di origine terrestre siano finite su Marte. Magari all’interno di queste rocce erano intrappolati microrganismi che sono sopravvissuti al viaggio e si sono diffusi sul pianeta di destinazione. Insomma, conclude Hand, «non sarebbe facile capire se la molecola del DNA ha avuto o meno un’origine distinta sui due pianeti». Europa, invece, è enormemente più distante. Qualsiasi forma di vita, anche basata sul DNA, fosse scoperta su questo satellite avrebbe di sicuro un’origine indipendente.
Senza dubbio Europa sembra avere gli ingredienti di base della vita. L’acqua allo stato liquido è abbondante e sul fondo oceanico potrebbero esserci anche sorgenti idrotermali, simili a quelle terrestri, in grado di nutrire eventuali organismi. Le comete che periodicamente si schiantano sulla superficie depositano composti organici che potrebbero fare anch’essi da mattoni della vita. Dalle fasce di radiazione di Giove provengono particelle che scompongono il ghiaccio in idrogeno e ossigeno, formando una vasta gamma di molecole che gli eventuali organismi potrebbero sfruttare per metabolizzare i nutrienti emessi dalle sorgenti idrotermali.
La grande incognita è come queste sostanze possano attraversare la calotta di ghiaccio, probabilmente spessa tra i 15 e i 25 chilometri, per raggiungere l’oceano. Ma, come hanno svelato le sonde Voyager e Galileo, nel ghiaccio si aprono parecchie crepe. L’anno scorso, utilizzando il telescopio Keck II, Hand e Mike Brown, astronomo del Caltech, hanno scoperto che sali provenienti dall’oceano di Europa riescono probabilmente a risalire in superficie, forse proprio attraverso le fratture. E alla fine del 2013, grazie al telescopio spaziale Hubble, un altro gruppo di osservatori ha individuato getti di acqua liquida provenienti dalla regione del polo sud di Europa. Evidentemente il ghiaccio del satellite non è impenetrabile.
Lanciare una sonda che entrasse in orbita attorno a Europa per studiarla sarebbe dunque particolarmente interessante. Un primo progetto in questo senso è stato sottoposto nel 2011 al National Research Council, che l’ha trovato scientificamente valido ma troppo costoso (4,7 miliardi di dollari). Un team del JPL guidato da Robert Pappalardo si è messo al lavoro per ripensare la missione. Secondo la nuova proposta, la sonda Europa Clipper orbiterebbe intorno a Giove e non al satellite – soluzione che richiede meno combustibile e quindi comporta un risparmio – ma effettuerebbe circa 45 passaggi ravvicinati in prossimità di Europa, per cercare di determinare le caratteristiche chimiche della superficie, dell’atmosfera e, indirettamente, dell’oceano. Pappalardo sostiene che la missione così ripensata costerebbe in totale meno di due miliardi di dollari. Se la proposta sarà approvata, dice, «il lancio dovrebbe avvenire tra l’inizio e la metà degli anni Venti». Se sarà utilizzato un razzo Atlas V, il viaggio verso Europa durerà circa sei anni. «Ma forse», prosegue, «si potrà impiegare il nuovo SLS, lo Space Launch System che la NASA sta sviluppando. È un razzo molto potente e potrebbe portarci là in 2,7 anni».
Con ogni probabilità Clipper non sarebbe in grado di trovare forme di vita su Europa, ma con i suoi risultati potrebbe porre le basi per una nuova missione: far atterrare sul satellite un lander come quelli sbarcati su Marte per campionarne la superficie e studiarne la chimica. Il passo successivo più logico – spedire su Europa una sonda in grado di esplorare l’oceano – potrebbe essere molto più difficile, a seconda dello spessore del ghiaccio. Un’alternativa sarebbe trovare un lago intrappolato nella calotta di ghiaccio di Europa, ma più vicino alla superficie, ed esplorare quello.
Nel lago Sukok, Hand e i suoi colleghi stanno appunto sperimentando una versione rudimentale di un rover subacqueo. Il veicolo si muove strisciando sotto 30 centimetri di ghiaccio, aiutato dalla galleggiabilità che lo mantiene aderente alla superficie inferiore della calotta, e i suoi sensori misurano temperatura, salinità, pH e altri parametri dell’acqua. Un altro gruppo di scienziati tra cui John Priscu, che lo scorso anno ha estratto batteri viventi dal Lago Whillans, 800 metri sotto la calotta glaciale antartica – si occupa di studiare quali siano le caratteristiche indispensabili perché un ambiente glaciale possa ospitare esseri viventi, e di che tipo.

PER QUANTO UTILE SIA, lo studio degli estremofili che vivono sul nostro pianeta può solo fornire indizi terrestri per la soluzione di un enigma extraterrestre. Presto, però, avremo a disposizione altri strumenti per colmare le lacune dell’equazione di Drake. Nel 2017 la NASA dovrebbe mettere in orbita un nuovo telescopio, il Transiting Exoplanet Survey Satellite (TESS), che cercherà pianeti intorno alle stelle più prossime al Sole, in modo da permettere agli astrofisici di esaminarne l’atmosfera alla ricerca di possibili gas di origine biologica. Il James Webb Space Telescope, che dovrebbe essere lanciato nel 2018, faciliterà questo tipo di indagini. Intanto anche il vecchio telescopio Hubble ha permesso scoperte significative, come le nubi individuate sul pianeta GJ 1214b, una sorta di super-Terra.
Alcuni astrobiologi stanno considerando anche una possibilità che appare al limite della fantascienza. Le ricerche effettuate finora danno per scontato che le eventuali forme di vita presenti sugli altri pianeti si fondino su molecole complesse basate sul carbonio, e usino l’acqua come solvente. Uno dei motivi di questo presupposto è che carbonio e acqua sono abbondanti in tutta la Via Lattea; un altro è che non abbiamo idea di come cercare forme di vita non basate sul carbonio, né di quali firme biologiche potrebbero lasciare.
«Dobbiamo fare uno sforzo per considerare almeno alcune alternative e capire quali potrebbero essere le loro firme nell’atmosfera», avverte Dimitar Sasselov. A Harvard, la sua équipe sta indagando sulle biologie alternative che potrebbero esistere su altri pianeti, basate per esempio sul ciclo dello zolfo anziché su quello del carbonio che domina la biologia terrestre.
Resta aperto, sullo sfondo, il progetto che oltre mezzo secolo fa diede inizio all’astrobiologia. Sebbene sia in pensione, Frank Drake non ha mai smesso di cercare segnali extraterrestri: sarebbe una scoperta così clamorosa da fare impallidire tutte le altre. Pur amareggiato dai drastici tagli ai finanziamenti del programma SETI, Drake oggi punta su un’idea nuova di zecca: cercare lampi di luce, anziché trasmissioni radio, emessi da civiltà aliene. «È saggio tentare tutti gli approcci possibili», conclude il padre dell’astrobiologia, «visto che non siamo molto bravi a indovinare che cosa combinano gli extraterrestri».


Michael Lemonick ha scritto Mirror Earth, un libro sulla ricerca al pianeta gemello della Terra. Thiessen è autore del servizio sul sistema solare (luglio 2013).