Joel K. Bourne, Jr., National Geographic 3/7/2014, 3 luglio 2014
IL GRANAIO DEL FUTURO
Non l’ha neanche visto arrivare, il grande trattore che ha sradicato i suoi banani e il suo mais. Poi i fagioli, le patate dolci e la manioca. Nel giro di pochi, polverosi minuti, il campo di mezzo ettaro che da anni sfamava Flora Chirime e i suoi cinque figli è stato raso al suolo per far spazio a un azienda agricola cinese di 20 mila ettari; una scacchiera di campi verdi e marroni che occupa una buona fetta del delta del fiume Limpopo, in Mozambico.
«Nessuno mi ha detto nulla», racconta Chirime, 45 anni, alzando il tono per la rabbia. «Un giorno, all’improvviso, quel trattore ha distrutto tutti i miei raccolti. Nessuno tra quelli che hanno perso la loro machamba è stato risarcito!». Secondo le ONG che operano sul territorio, la Wanbao Africa Agricultural Development Company avrebbe sottratto terreni – e fonti di sostentamento – a migliaia di contadini con la benedizione del governo mozambicano, che anche in passato ha dimostrato di non farsi scrupoli nel favorire i grandi investimenti stranieri a discapito dei diritti degli agricoltori locali. Chi è riuscito a farsi assumere dall’azienda agricola cinese lavora sette giorni su sette e non è pagato per gli straordinari. La Wanbao respinge tutte le accuse, dichiarando che sta insegnando ai contadini del posto a coltivare il riso.
Il caso di Chirime non è isolato. La donna è solo uno dei molti protagonisti di quello che potrebbe essere definito il capitolo più importante della storia dell’agricoltura globale odierna: l’ambizioso tentativo di trasformare l’Africa subsahariana – storicamente una delle regioni più povere del mondo – nel nuovo granaio del pianeta.
Dal 2007 i prezzi da capogiro raggiunti da mais, soia, grano e riso hanno scatenato una “corsa alla terra” che vede protagoniste grandi aziende pronte ad acquistare o affittare ettari su ettari in paesi in cui la terra costa poco, i governi sono compiacenti e i diritti fondiari vengono in gran parte ignorati. La maggior parte delle acquisizioni è avvenuta in Africa, una delle poche regioni del pianeta in cui si trovano ancora milioni di ettari di terra incolta e acqua in abbondanza per l’irrigazione.
Qui, inoltre, si registra il gap di rendimento più ampio al mondo: mentre i coltivatori di mais, grano e riso di Cina, Stati Uniti e Unione Europea hanno una resa di circa sei tonnellate per ettaro, i contadini dell’Africa subsahariana producono in media una tonnellata, circa la stessa quantità raccolta in una buona annata dai Romani ali epoca di Cesare. Nonostante i tentativi, in Africa non ha mai preso piede la combinazione di fertilizzanti, irrigazione e semi ad alta resa tipica della “rivoluzione verde” che tra il 1960 e il 2000 ha più che raddoppiato la produzione mondiale di cereali. La causa? Scarse infrastrutture, limitatezza dei mercati, debolezza dei governi e guerre civili fratricide che hanno devastato il continente in epoca post-coloniale.
Oggi però molti di questi problemi sono in via di soluzione. Negli ultimi dieci anni la crescita economica dell’Africa subsahariana si è attestata intorno al cinque per cento annuo, superando quella degli Stati Uniti e dell’Unione Europea. Nei singoli paesi il debito pubblico è in calo, e con sempre maggiore frequenza si tengono elezioni democratiche. Dopo 25 anni in cui, in pratica, nessuno ha investito nell’agricoltura africana, la Banca Mondiale e i paesi donatori hanno cominciato a farlo, trasformando il continente in una sorta di laboratorio in cui sperimentare nuovi metodi per incrementare la produzione alimentare. Alcuni esperti sostengono che, se i contadini subsahariani riuscissero a ottenere anche solo quattro tonnellate di cereali per ettaro con la tecnologia attuale (un’impresa piuttosto difficile) potrebbero non solo nutrirsi meglio, ma esportare il prodotto in eccedenza, incassando prezioso denaro contante e contribuendo nel frattempo alla soluzione del problema dell’alimentazione mondiale.
Certo, è un’idea piuttosto ottimistica. Al momento la Thailandia esporta più prodotti agricoli di tutti i paesi subsahariani messi insieme, per non parlare della minaccia dei cambiamenti climatici che incombe sui raccolti africani. La questione più spinosa però è un’altra: capire chi si occuperà dell’agricoltura africana nel prossimo futuro. Saranno i poveri contadini, come Chirime, che coltivano campi non più grandi di mezzo ettaro e costituiscono quasi il 70 per cento della forza lavoro del continente? Oppure il ruolo spetterà alle multinazionali come la Wanbao che gestiscono fattorie industriali organizzate sul modello di quelle del Midwest degli Stati Uniti?
Le organizzazioni umanitarie che si occupano della fame nel mondo e dei diritti fondiari dei contadini usano termini come “neocolonialismo” e “imperialismo agricolo” quando si parla di acquisizioni di terreni agricoli su larga scala. Tuttavia, gli esperti di sviluppo agricolo ritengono che l’afflusso massiccio di capitali privati, infrastrutture e tecnologia di cui beneficerebbero le aree rurali povere potrebbe fungere da catalizzatore del tanto necessario sviluppo del continente, se solo si arrivasse a una sinergia tra grandi progetti e piccoli coltivatori.
«SE SCRIVESSI UNA LETTERA A DIO chiedendogli un posto che abbia il suolo e le condizioni climatiche ideali per l’agricoltura, ti manderebbe qui», dice Miguel Bosch, agronomo argentino che dirige la Hoyo Hoyo, un’azienda di quasi 10 mila ettari nel Mozambico settentrionale in cui si produce soia. «Questo è un paradiso per i coltivatori. Mi sono occupato per anni di agricoltura in Brasile e in Argentina e non ho mai visto terreni simili».
Il suolo fertile, l’aumento vertiginoso della domanda di soia e riso e un governo che favorisce le concessioni di grossi appezzamenti di terreno hanno reso l’ex colonia portoghese protagonista di questa corsa alla terra che oggi interessa un po’ tutto il continente. Nel 2013 il Mozambico era al terzo posto nella classifica delle nazioni più povere del mondo; quasi metà dei bambini al di sotto dei cinque anni era malnutrita. Ma le recenti scoperte di giacimenti di gas naturale e carbone nella regione settentrionale del paese e altre concessioni minerarie e forestali stanno lentamente cambiando le sue sorti. L’estrazione degli idrocarburi ha messo in moto l’economia del Mozambico, che nel 2013 è cresciuta del sette per cento. Sono stati avviati importanti progetti per la realizzazione di infrastrutture, molti dei quali finanziati con i prestiti di paesi che vogliono ingraziarsi le autorità politiche e dividersi la posta in gioco.
Dal 2004 circa 2,5 milioni di ettari – quasi il sette per cento dei terreni coltivabili del paese, una quota tra le più elevate dell’Africa – sono stati concessi in prestito a investitori sia stranieri che locali per coltivare un po’ di tutto, dai prodotti forestali ai biocarburanti, fino alla canna da zucchero. Ma solo una piccola percentuale di questa ricchezza è finita nelle tasche dei 24 milioni di abitanti del Mozambico, oltre la metà dei quali vive ancora con meno di un euro al giorno.
Siglare un accordo con un funzionario ministeriale in un elegante albergo di Maputo è relativamente facile. Avviare una grande azienda agricola, gestirla e ottenere profitti circondati da vicini spesso ostili è tutt’altra cosa. La Hoyo Hoyo, prima produttrice di soia del paese, sita nella regione di Gurué, avrebbe dovuto essere il fiore all’occhiello della nuova agricoltura africana. Invece è diventata l’esempio perfetto di ciò che può accadere quando gli affari non vanno nel modo sperato. Nel 2009 le autorità mozambicane hanno ceduto quasi 10 mila ettari di una fattoria statale abbandonata a un’azienda portoghese legata al governo. Peccato che gli abitanti della zona coltivassero quei terreni da anni per sfamare le loro famiglie. Per risolvere il problema i dirigenti portoghesi hanno incontrato i capi dei villaggi, promettendo loro che avrebbero avuto il doppio della terra da coltivare altrove, oltre a una scuola, un ambulatorio medico e nuovi pozzi per l’acqua.
Poche di quelle promesse sono state mantenute. La scuola e l’ambulatorio non sono mai stati costruiti, anche se l’azienda ha acquistato un’ambulanza per trasportare i malati in un ospedale di Gurué, a un’ora di distanza. Soltanto una quarantina di uomini è stata assunta nell’azienda agricola con compiti poco qualificati e mal retribuiti, mentre centinaia di altre persone sono state costrette a trasferirsi. Chi ha ricevuto un appezzamento da coltivare ha scoperto che era lontano da casa, paludoso e incolto.
Costretti ad abbandonare le loro case dopo essere sopravvissuti a 16 anni di guerra, questi contadini sono poveri ma non inermi. Poco dopo aver ottenuto la concessione, la Hoyo Hoyo – che nella lingua locale significa “benvenuti” – ha cominciato ad avere problemi con le attrezzature agricole. Per ragioni ancora misteriose, i trattori importati dagli Stati Uniti non si mettevano in moto.
Ho chiesto a un contadino che lavorava nei pressi dell’azienda portoghese quale fosse il problema. «Non so che sia successo», mi ha risposto con un sorriso d’intesa. «Forse c’entra la magia africana».
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MA QUESTE SCARAMUCCE con la Hoyo Hoyo non sono niente in confronto a ciò che potrebbe accadere in futuro.
Nel 2009 il governo ha firmato un accordo con Brasile e Giappone per sviluppare un megaprogetto agricolo chiamato ProSavana, che destinerebbe 14 milioni di ettari del Mozambico settentrionale alla produzione di soia su scala industriale. Probabilmente si tratta della più grande acquisizione di terra di questo tipo mai effettuata nel mondo. Più grande della Grecia, il corridoio doveva essere punteggiato qua e là da moderne fattorie da 10 mila ettari gestite da aziende brasiliane, con tanto di centri tecnici per l’addestramento dei contadini locali alla coltivazione di manioca, fagioli, ortaggi e, naturalmente, soia. Questo era il programma iniziale. Nel 2013, quando un gruppo di agricoltori brasiliani ha effettuato un sopralluogo nella regione, i nodi sono venuti al pettine.
«I terreni erano fertili, ma punteggiati di villaggi», racconta Anacleto Saint Mart, che lavora con i contadini della regione per l’organizzazione non profit statunitense TechnoServe. «Una situazione molto diversa da quella che era stata prospettata ai brasiliani». Studiando le mappe della regione, gli esperti di sviluppo brasiliani hanno scoperto che gran parte della terra era già destinata ad attività minerarie o al disboscamento, oppure era coltivata da agricoltori del posto. Al momento solo 950 mila ettari di quel corridoio sono inutilizzati, e si tratta dei terreni meno adatti alla coltivazione.
«Se pensiamo a un caso come quello di ProSavana, chi ci guadagna?», si chiede Devlin Kuyek di GRAIN, l’organizzazione non profit che per prima ha attirato l’attenzione del mondo sugli investimenti delle grandi multinazionali in terreni agricoli. «La terra è coltivata dai piccoli agricoltori, eppure il governo la cede alle grandi aziende. Sono certo che alcune aziende sono in buona fede, ma in ogni caso approfittano di terra e manodopera a basso costo. L’agricoltura industriale non può che peggiorare lo sfruttamento di questa gente».
Anche i piccoli coltivatori possono essere estremamente produttivi se vengono sostenuti dal governo, prosegue Kuyek, riferendosi alle risaie del Vietnam o ai piccoli caseifici del Kenya, che forniscono più del 70 per cento del latte del paese. Basterebbe soltanto garantire alle donne – che costituiscono la maggioranza degli agricoltori africani – le stesse possibilità date agli uomini di accesso alla terra, ai prestiti e ai fertilizzanti, per incrementare la produzione alimentare del 30 per cento. Ma il governo del Mozambico persegue una politica diversa, ed è convinto che i problemi del paese possano essere risolti attraverso aziende agricole che operano su vasta scala.
«Credo che ProSavana e la valle dello Zambesi potrebbero diventare il granaio del paese», afferma Raimundo Matule, direttore del Dipartimento di economia del Ministero dell’Agricoltura. «Non penso ad aziende enormi come in Brasile, ma piuttosto a fattorie di media grandezza, dai 3 ai 10 ettari ciascuna. I brasiliani hanno le competenze, la tecnologia e le attrezzature che possiamo adattare a realtà più piccole. Se ProSavana non dovesse fornire il giusto contributo al problema della disponibilità alimentare, il governo ritirerà il proprio sostegno al progetto».
A POCHI CHILOMETRI DA HOYO HOYO, lungo una strada di terra polverosa, un campo di soia gestito da un insegnante in pensione rappresenta una possibile alternativa alla produzione su vasta scala. Armando Afonso Catxava ha iniziato a coltivare ortaggi nel tempo libero in un piccolo appezzamento di terra. Col passare degli anni è arrivato a possedere 26 ettari e adesso ha stipulato un “contratto di coltivazione” con una nuova azienda che si chiama African Century Agriculture, che gli fornisce i semi e provvede alla sarchiatura meccanizzata del campo. In cambio Catxava vende la soia all’azienda a un prezzo preventivamente concordato, da cui si detraggono le spese per i servizi ottenuti. Fino a oggi l’accordo è stato vantaggioso per entrambi.
«Penso che le fattorie di medie dimensioni siano la soluzione», afferma Catxava. «Le grandi aziende agricole occupano troppo spazio, la gente non sa più dove vivere. Diamo a tutti un campo di soia di cinque ettari, così i contadini guadagnano denaro senza perdere la terra». I contratti di coltivazione hanno avuto una buona riuscita nel caso di allevamenti di pollame, di prodotti ad alta resa come il tabacco ma anche con il mais baby biologico per l’esportazione in Europa. Oggi gli agricoltori del Mozambico coltivano anche soia per mangimi, molto richiesta dalla crescente industria avicola.
Rachel Grobbelaar è una donna alta e robusta originaria dello Zimbabwe; ha lasciato un buon lavoro nel distretto finanziario di Londra per dirigere African Century, che si avvale della collaborazione di oltre 900 coltivatori a contratto, i quali lavorano quasi 1.000 ettari di terreni di piccole e medie dimensioni. I contadini ricevono sette visite a stagione da parte dei consulenti dell’azienda che li istruiscono sulle tecniche di base dell’agricoltura conservativa e sull’impiego di trattamenti poco costosi delle sementi, in sostituzione dei più cari fertilizzanti, per incrementare i raccolti.
«Proprio ieri sono andata da uno dei nostri coltivatori in montagna. Ha raccolto 2,4 tonnellate per ettaro», afferma Grobbelaar, riferendosi alla produzione dello scorso anno, più che doppia rispetto alla media del paese. «Neppure lui riusciva a crederci. Ha guadagnato 37 mila meticaies (circa 1.000 euro), una cifra alta da queste parti. Io credo molto nel modello dei contratti di coltivazione. Le grandi aziende agricole danno lavoro alla gente, ma la privano della terra e in genere pagano salari minimi. Sono sinceramente convinta che questo sia il modo giusto per incrementare la produzione».
Se gestita in modo corretto, anche l’agricoltura su vasta scala può portare dei benefici alla popolazione locale. Quattordici anni fa Dries Gouws, ex chirurgo dello Zambia, ha piantato 12 ettari di banani in un vecchio agrumeto nei dintorni di Maputo. L’attività è cresciuta lentamente trasformandosi in quella che oggi si chiama Bananalandia. Esteso su 1.400 ettari, è il bananeto più grande del Mozambico e una delle principali realtà occupazionali del paese, visto che impiega 2.800 persone a tempo pieno. In questi anni la piantagione di Gouws ha contribuito a trasformare il Mozambico da importatore a esportatore di banane. Man mano che la sua attività cresceva, Gouws ha asfaltato strade, ha costruito una scuola e un ambulatorio medico, ha scavato pozzi e installato 55 chilometri di linee elettriche che forniscono corrente al suo impianto d’irrigazione e ai villaggi vicini, dove vivono i suoi dipendenti. Nella piantagione di Gouws la paga più bassa è circa il 10 per cento più alta del salario minimo nazionale; gli autisti di trattori e i direttori guadagnano più del doppio.
Gouws crede in una combinazione di piccole e grandi fattorie, in cui i piccoli agricoltori possono allevare bestiame e occuparsi dei campi – guadagnando in sicurezza e autostima – mentre le grandi aziende come la sua possono provvedere a ciò che il governo non fornisce, cioè strade, elettricità e infrastrutture. Alcuni sarebbero impiegati nelle grandi fattorie, altri lavorerebbero in proprio. Il segreto per conquistare il sostegno delle comunità locali, dice, è semplice: mantenere le promesse.
«Ho costruito questa linea elettrica per il villaggio», spiega Gouws indicando un cavo che attraversa un sentiero di terra rossa fino a un gruppetto di capanne in mezzo ai banani. «Nessuno me l’ha chiesto, né si aspettava che lo facessi. In fin dei conti, senza scomodare i grandi filosofi, tutti vogliamo rendere il mondo un posto migliore, no? Non possiamo pensare solo al profitto».
Ma non inganniamoci: è senza dubbio il denaro – e non certo il nobile ideale di nutrire il mondo – che ha messo in moto la corsa alla terra in Africa. A New York si è tenuto di recente un convegno di investitori agricoli a cui hanno partecipato almeno 800 leader finanziari di tutto il mondo, che gestiscono quasi 3.000 miliardi di dollari di investimenti. Tra questi spiccano fondi pensione, compagnie assicurative, hedge funds, fondi private equity e fondi sovrani, che al momento hanno destinato a investimenti in agricoltura circa il cinque per cento dei loro asset combinati. Nel prossimo decennio, si stima, questa percentuale sarà triplicata. E l’immissione massiccia di capitali privati, tecnologie e infrastrutture è ciò di cui l’ agricoltura mondiale ha bisogno; ne sono convinti gli esperti della FAO, i quali stimano che per sfamare due miliardi di bocche in più entro il 2050 sarà necessario investire ogni anno in questo settore 83 miliardi di dollari.
Ciò che conta è utilizzare quegli investimenti in modo che i benefici ricadano su tutti, garantendo diritti fondiari, mercati prosperi e incrementi della produttività a piccoli e grandi coltivatori. «Se ci riuscissimo, porteremmo a casa una triplice vittoria», sostiene Darryl Vhugen, avvocato di Landesa, un’organizzazione non profit con sede a Seattle che aiuta i contadini poveri dei paesi in via di sviluppo a difendere il loro diritto alla terra. «Occupazione, infrastrutture e sicurezza alimentare si tradurrebbero in vantaggi per gli investitori, per le comunità locali e per la nazione intera. Si tratta di un’opportunità straordinaria».
PERCORRENDO UNA LUNGA STRADA nel cuore della zona in cui dovrebbe sorgere ProSavana, sosto nei pressi di una capanna di fango e mattoni per parlare con Costa Ernesto, un contadino di 35 anni, e sua moglie Cecilia Luis. Loro non hanno mai sentito parlare di ProSavana. Cercano di sbarcare il lunario coltivando a mais un ettaro di terra e vendendo canne di bambù per costruire i tetti. Hanno cinque figli tra i sei mesi e gli 11 anni. Mentre parliamo, la più grande, una bimba timida di nome Esvalta, batte il mais con un pestello di legno alto quanto lei, proprio come sua mamma, sua nonna e sua bisnonna hanno fatto prima di lei. La mia guida, che lavora nel settore dello sviluppo agricolo da vent’anni, mi dice che bambini e genitori sembrano soffrire di malnutrizione. Chiedo a Ernesto se quest’anno ha raccolto mais a sufficienza per nutrire la sua famiglia. «Sì», mi risponde orgoglioso.
Mentre chiacchieriamo si avvicinano altri due uomini a cui chiedo se rinuncerebbero ai loro campi per lavorare in una grande fattoria. Considerati i vestiti laceri, le pance gonfie, le casupole di zolle e l’evidente stato di povertà, la domanda sembra quasi indelicata. «Sì», rispondono senza la minima esitazione. «Prego sempre che succeda qualcosa del genere», aggiunge il più anziano dei tre uomini. «Ho davvero bisogno di un lavoro».
Non sappiamo ancora se i futuri contadini del Mozambico assomiglieranno di più ai coltivatori dell’Iowa oppure ai piccoli ma produttivi risicoltori del Vietnam. Su una cosa però siamo tutti d’accordo: lo status quo è inaccettabile.