Dario Pappalardo, la Repubblica 3/7/2014, 3 luglio 2014
I PADRONI DELL’ARTE
«Oggi l’arte è un super business. Dopo il traffico di droga e la prostituzione, è il più grande mercato senza regole del mondo». A lanciare la provocazione è Matthew Carey-Williams, curatore della galleria White Cube di Londra, che si è lasciato andare così a Georgina Adam, esperta di economia dell’arte e firma di The Art Newspaper. Una battuta. Ma un fondo di verità c’è. Perché il mercato dell’arte contemporanea non è mai stato ricco, potente e spregiudicato come in questo momento. Dal 2004 al 2012 il giro di affari è aumentato del 564 per cento. Con buona pace della crisi mondiale. La casa d’aste Christie’s, nel 2013, ha battuto ricavi per 7,12 miliardi di dollari; la rivale Sotheby’s per 6,3 miliardi.
In due si giocano il destino del collezionismo dei più ricchi della Terra: 2170 “happy few” (la stima è del gruppo di ricerca Wealth-X) che si sfidano a colpi di status symbol e di beni rifugio in un risiko le cui pedine sono le opere di Jeff Koons, Damien Hirst, Takashi Murakami e non troppi altri. La sera del primo luglio, da Christie’s Londra, a segnare i nuovi record personali sono stati lo scozzese Peter Doig – quasi 17 milioni di dollari per un autoritratto –, Tracey Emin – 4 milioni e mezzo per My Bed, il letto sfatto pieno di calze, preservativi usati e assorbenti – e Michelangelo Pistoletto, che con Amanti ha sfiorato i quattro milioni di dollari. Va da sé che il Francis Bacon di Study for Head of Lucian Freud sia stato la star con quasi 20 milioni di dollari, in una serata che in tutto ne ha raccolti 169,8. I top collezionisti sono interessati a 50-100 artisti al massimo, sempre gli stessi fino a che la parabola di questi non discende e il mercato decide di sfornarne altri pronti all’uso. Sì perché, come sostiene Georgina Adam, che ha appena pubblicato uno studio fondamentale: Big Bucks – The Explosion of the Art Market in the 2-1st Century (edito da Lund Humpries), «Una caratteristica di questo secolo è la straordinaria ascesa di alcuni giovani artisti la cui carriera è stata totalmente creata dal mercato e probabilmente portata avanti per il mercato stesso». L’approvazione dei critici e la consacrazione nei musei statali ormai contano poco.
Esemplare è il caso Dan Colen. Classe 1979, nato nel New Jersey, l’artista è stato lanciato dalla Gagosian, prima mega gallery mondiale con 13 sedi nel pianeta e un fatturato da 1 miliardo di dollari l’anno (2012). I suoi dipinti sono stati esposti nel 2006 nelle toilette della galleria e poi venduti a 10 mila dollari ciascuno. Il 12 maggio scorso l’opera Boo Fuck’n Hoo è stata battuta da Christie’s per 2,26 milioni di dollari. Pare fosse stata acquistata la prima volta per 26 mila dollari. In meno di un decennio, insomma, Colen ha visto lievitare le sue quotazioni del 12mila per cento. Merito, fortuna o costruzione a tavolino? Dietro Colen c’è il potente collezionista e mercante d’arte americano Peter Brant. Lo stesso, tanto per intenderci, che nel novembre 2013, sempre da Christie’s, ha rivenduto il Balloon Dog di Jeff
Koons a 58,4 milioni di dollari, cifra mai raggiunta da un artista vivente. Proprio in contemporanea con l’asta di maggio la Brant Foundation di Greenwich, Connecticut, ha inaugurato la prima retrospettiva dedicata al trentacinquenne Colen: Help! ( aperta fino al 7 settembre). Al vernissage c’erano attori di Hollywood capitanati da Leonardo Di Caprio, top model – lo stesso Brant ne ha sposata una degli anni d’oro: Stephanie Seymour, ex della stella pop Axl Rose – e inviati di Vogue. Il lancio di un artista è un evento glamour, ovviamente. Ma anche una manovra finanziaria. L’opera record di Colen battuta da Christie’s era stata “garantita” da terzi: se fosse rimasta invenduta, un garante misterioso l’avrebbe acquistata a una cifra pattuita precedentemente con la casa d’asta. Quella delle “prevendite assicurate” è una consuetudine di Christie’s come di Sotheby’s. Non è un segreto, ma uno stratagemma solo relativamente trasparente, questo sì. Le “garanzie” fanno lievitare la stima delle opere d’arte, anche e soprattutto quelle di un artista che non ha ancora raggiunto la fama. Negli ultimi anni astri del contemporaneo come Jacob Kassay, Matthew Day Jackson e Oscar Murillo sono stati lanciati così. Secondo lo studio di Georgina Adam, a rifornire di garanzie le case d’asta sarebbero collezionisti e mercanti insieme. Tra questi Adam cita, oltre a Peter Brant, i
Mugrabi, la famiglia reale del Qatar e il gallerista di New York William Acquavella. Un “cerchio magico” che decide sorti e quotazioni del mercato dell’arte. Anche perché ormai la figura di chi colleziona è indistinguibile da quella di chi vende, pompando i prezzi.
Ai livelli più alti della piramide un “mecenate” è diventato uno specullector, un collezionista speculatore: ha una raccolta sua, magari siede nel cda di un museo o di una casa d’aste. Talvolta può vantare tutte e tre queste cose insieme. E gestire un parco artisti in entrata e in uscita. Come François Pinault, che dal 1998 è il padrone di Christie’s, ma anche di due spazi espositivi d’eccezione come Punta della Dogana e Palazzo Grassi a Venezia, musei privati che diventano vetrine di parte della sua collezione da 2000 opere. Ancora Adam: «Con l’ascesa dei musei privati, i collezionisti hanno sempre più la possibilità di abusare della loro posizione, usando le istituzioni personali per promuovere artisti che in seguito immettono sul mercato». Brant, Gagosian, Pinault sono dei brand molto più potenti degli artisti che gestiscono.
Se Christie’s e Sotheby’s sono i ristoranti di lusso dove le élite – e le banche anche – si siedono e si sfidano, le fiere sono diventate i nuovi fast food, dove l’arte contemporanea si divora velocemente. Nel 1970, erano solo tre quelle che davvero contavano. Nel 2012, hanno superato quota 200. Cento, invece, sono le biennali. Art Basel è come un marchio in franchising: ha inaugurato a Miami nel 2002 e poi anche a Hong Kong, dove nel maggio scorso si è tenuta con afflusso record la seconda edizione. L’anno prossimo sarà Los Angeles ad aprire le porte al mercato. La domanda è in continua crescita perché le fiere si accordano perfettamente al cambiamento di profilo del collezionista: i nuovi ricchi della finanza, dell’immobiliare, ma anche dello star system, non sono necessariamente competenti nel settore. Così come quelli provenienti dalle economie in ascesa: Cina, Russia, Qatar, Emirati Arabi. Per il collezionista emergente e con poco tempo, l’ art fair, magari con qualche art advisor stipendiato come suggeritore, diventa un conveniente e veloce onestop shop . Una fermata mordi e fuggi per combinare un buon affare e appendere uno status symbol in salotto senza troppa fatica: anche i Beckham, in fin dei conti, hanno a casa un Damien Hirst. Gli artisti, ovviamente, si adeguano. A prezzo e misura ridotti Ai Weiwei come Tracey Emin realizzano opere da vendere appositamente in fiera: i neon con gli slogan stupidi della artista inglese furoreggiavano all’ultima Art Basel Miami Beach.
Francis Outred di Christie’s ha detto che in vita si aspetta di vedere battuta all’asta un’opera per un miliardo di dollari. Il record, per ora, sono i 142,4 milioni del Francis Bacon dello scorso anno: Three Studies of Lucian Freud. Qualcuno dice che la bolla sia destinata a scoppiare. Per ora, sembra proprio di no.