Maurizio Molinari, La Stampa 3/7/2014, 3 luglio 2014
«MIO FIGLIO? ORGOGLIOSA DI LUI. SARA’ UN MARTIRE DELLA PALESTINA»
In fondo a una strada sterrata di Halhul, a nord di Hebron, ci sono i resti della casa di Amer Abu Aisheh, uno dei due palestinesi accusati da Israele di aver rapito e ucciso i tre ragazzi ebrei Eyal, Gilad e Naftali.
Metà della palazzina è ridotta in cenere a seguito dell’esplosione e dell’incendio causati dai militari israeliani per ritorsione verso i famigliari del sospetto terrorista di Hamas.
Ad accoglierci davanti al cumulo di detriti è Abdul Rahman, cugino di Amer. Ha 24 anni e dice di essere «ancora sotto choc» per quanto ha visto: «Erano almeno cento soldati, sono arrivati alle 20,30, hanno rinchiuso donne e bambini in una stanza, impedito a noi uomini di accedere alla casa, e hanno iniziato a sfasciare tutto. Porte, finestre, mobili, divani, lavandini, bagni, cucina. Tutto è andato in pezzi. Alle 23 hanno fatto esplodere il lato della casa dove Amer viveva con moglie e tre figli, ne è divampato un incendio che è durato ore perché hanno impedito ai pompieri di intervenire».
Mentre Abdul Rahman, 24 anni, parla della «notte da incubo» arriva a sedersi al suo fianco, su una sedia di plastica, Mohammed, ovvero lo zio di Amer. Ha 59 anni, è il fratello del padre del sospetto terrorista e si comporta da padrone di casa: «Gli israeliani hanno dimostrato di essere degli animali con la nostra famiglia, per loro pace significa cacciarci da questa terra, ma ancora peggio sono i leader palestinesi che ci governano, incapaci di difenderci, di guidarci, di costruire il nostro Stato, non ci resta che Allah». È proprio Mohammed che ci accompagna fra i resti della casa demolita e annerita, indica porte sfondate, scale distrutte e pareti annerite. I famigliari del sospetto terrorista tengono anzitutto a smentire «la falsa versione dei fatti inventata da Israele». Abdul Rahman descrive il cugino Amer come «un ragazzo malato da quando aveva battuto la testa in piscina, con un’educazione basilare e senza successo come fabbro» la cui unica vera passione era «andare in moschea». «È proprio in moschea ha incontrato e fatto amicizia con Marwan Qawasmeh - aggiunge lo zio, riferendosi all’altro super-ricercato da Israele -, ma ciò non significa essere di Hamas o aver sequestrato quei tre ragazzi, è un’intera invenzione sionista-americana, in realtà sono gli israeliani ad aver rapito Amer e Marwan, o forse li hanno già uccisi, potremmo non rivederli mai più». Nei confronti di Eyal, Gilad e Naftali non c’è alcuna pietà: «Adesso tutti li piangono - tiene a dire Ziad, un altro dei 16 fratelli del padre di Amer - ma in realtà si trattava di tre ebrei intrusi in questa terra palestinese, come intrusi e violenti sono tutti gli altri coloni che ci rubano acqua, lavoro, sicurezza, vita».
Nella parte non demolita della casa, dove ci sono le stanze dei genitori e dei fratelli di Amer, l’unico foglio attaccato al muro è un volantino con le insegne di Hamas. Raffigura Amer e il fratello minore, morto in un attacco contro gli israeliani durante la Seconda Intifada.
È in questo momento che da una stanza nel retro si fa avanti Nadia, la madre cinquantenne. Coperta dall’abito religioso islamico, con l’hijab bianco sul capo, fa capire con un cenno del capo che vuole parlare. Gli altri famigliari compiono un passo indietro, le mostrano rispetto perché Nadia Abu Aisheh ha perso un figlio, ne ha un altro fuggiasco e due in carcere assieme al marito. Incarna la resistenza armata contro Israele. «Sono la madre di un martire per la Palestina - esordisce - e forse i martiri sono già due perché Amer potrei non vederlo più». Si dice «orgogliosa e forte per quanto i miei figli hanno compiuto», augura ad Amer «un Ramadan vittorioso» e sottolinea di sentirsi «con un volto che risplende perché sono rispettata dalla gente e amata da Allah». Per Nadia la definizione di martire è «colui che sceglie di dare la vita per uccidere degli ebrei» e la vittoria è nel «riuscirci».
Davanti alla scomparsa di Amer - ha fatto perdere le tracce dopo il rapimento dei ragazzi ebrei il 12 giugno - e alla casa sventrata, Nadia si mostra determinata a «continuare ciò che i miei figli hanno iniziato». Ecco come: «Ricostruirò questa casa, pezzo per pezzo, ne avremo una più grande e più bella perché Allah ce ne darà la forza. Gli israeliani hanno distrutto ben cinque case della nostra famiglia negli ultimi venti anni, da quando la cosiddetta pace è iniziata, ma noi le abbiamo sempre ricostruite, restiamo su questa terra e siamo ogni giorno più forti».
Al momento dei saluti, prende in braccio il figlio più piccolo di Amer e aggiunge: «Vorrei far sapere agli italiani, agli europei, che non c’è cosa più bella di essere madre di martiri». Pochi attimi dopo a presentarsi sulla soglia d’ingresso è un alto funzionario dell’Autorità palestinese. Nadia gli volta le spalle, gli altri membri della famiglia se ne vanno a passo veloce e lo zio Mohammed tiene a spiegare la repulsione collettiva: «Quando gli israeliani sono venuti a demolire nessun soldato dell’Autorità si è fatto vedere, se avessero distrutto la casa di un militante di Fatah lo avrebbero risarcito ma a noi non daranno nulla, l’unica colpa che abbiamo è di andare in moschea, per questo è Allah il nostro migliore alleato».