Federico Buffa; Carlo Pizzigoni, Undici 3/7/2014, 3 luglio 2014
GOLPE – Meno di un minuto, è stato sufficiente. Nella pre-stagione del campionato di calcio cileno del 1961, il Colo Colo, il club col maggior seguito del Paese, incontra i paraguagi del Cerro Porteño
GOLPE – Meno di un minuto, è stato sufficiente. Nella pre-stagione del campionato di calcio cileno del 1961, il Colo Colo, il club col maggior seguito del Paese, incontra i paraguagi del Cerro Porteño. Francisco Valdés, che a breve compirà diciotto anni, stringe la mano al compagno Bernando Bello e muove per la prima volta le sue gambette all’interno di una partita ufficiale. La lancetta dei secondi non si è ancora fatta l’intero giro d’orologio che quel ragazzo, il Chamaco, riesce a toccare per la prima volta la palla, che riconosce e asseconda da subito le volontà del talento e attraversa la linea di porta. Situazione a cui si abituerà presto Valdés, che ormai rimane per tutti il Chamaco, il ragazzo, secondo il castigliano che si usa in Messico, luogo d’elezione del padre del giovane, anche se non sempre quel gesto sarà accompagnato dalla gioia irrefrenabile che regala il gol. Il Paese sta ripartendo, dopo il terribile sisma del ’60, il Grande Terremoto del Cile, il più potente della storia, che raggiunge la magnitudo momento di 9,5. Ha una grande tradizione democratica quella terra andina, e in quegli anni Sessanta il Cile conosce l’edilizia popolare, l’assistenza alla maternità ed estende il suffragio a tutti i cittadini al di sopra dei 18 anni. E poi, all’inizio degli anni Settanta nasce il sogno di Salvador Allende, il socialismo per via democratica. Con la vittoria di Unidad Popular, la storia cilena diventa quella di tutto il Mondo: è l’esperimento politico più interessante del laboratorio latinoamericano. In Italia, la Dc (legata al partito di Eduardo Frei, che inizialmente appoggia esternamente il governo), Pajetta e Berlinguer, lo osservano con interesse, gli studenti lo mitizzano, Allende diventa un simbolo. I bombardamenti sul Palacio de la Moneda, la tragica fine del presidente, la presa di potere di Augusto Pinochet soffoca quel respiro di libertà. Un orrore che ha un luogo simbolo: l’Estadio Nacional. Dopo l’11 settembre 1973, giorno del golpe, vengono condotte nell’impianto le persone considerate pericolose per il regime, lo stadio diventa un campo di concentramento, da lì i prigionieri vengono smistati in altre aree dove saranno torturati e, nella maggior parte dei casi, uccisi. Il Cile è diventato un mattatoio, ma la gente ci deve vivere, con le paure e le umiliazioni che questi drammi portano con sé. Il Cile democratico finisce però qualche mese prima. Il 1973 è un anno di tensioni politiche nel Paese, ma il Colo Colo vola in Copa Libertadores. A trascinarlo c’è lui, il Chamaco Valdés, che continua a vedere la porta con una regolarità impressionante (è tuttora il massimo goleador del campionato cileno, ed è stato solo un centrocampista offensivo) e che quando non segna, manda in rete il giovane compagno Carlos Caszely, “el Rey del metro cuadrado”. La squadra vince, e qualcuno passeggia innervosito. Il progetto del golpe è già definito nei dettagli a inizio anno, ma l’euforia che si vive attorno al Colo Colo impedisce l’attuazione di ogni piano insurrezionale. La squadra che ha come simbolo un fiero guerriero Mapuche arriva fino alla finale contro l’Independiente di Avellaneda. Il presidente Allende riceve la squadra, trasmette ai ragazzi i complimenti per «aver regalato gioia al popolo cileno», ma il percorso, non solo quello sportivo, si interrompe sul più bello, nei supplementari della partita di spareggio, dopo le due finali terminate in parità. È il 6 giugno 1973: il piano del golpe può partire, e concretizzarsi in tre mesi. Tragica ironia della vita e banale consuetudine della storia, il dittatore Augusto Pinochet diventa poi presidente onorario del Colo Colo. La sua giunta pretende che le energie della squadra che ha fatto così bene in Libertadores trascinino il Cile anche al Mondiale di Germania. Dal Sudamerica verso Francoforte, voleranno il Brasile campione in carica, dopo la straordinaria esibizione del 1970, l’Uruguay e l’Argentina. Il Cile deve giocarsi l’accesso spareggiando con una europea. Il fato gioca il carico da undici: tocca all’Unione Sovietica. Per il Mondo diviso in due, mica male, se pensiamo che dietro al Cile di Pinochet, come testimonieranno gli esperimenti economici dei Chicago Boys friedmaniani, c’è l’Operation Condor, l’influenza statunitense in Latino America. I cileni pareggiano 0-0 a Mosca, due settimane dopo il golpe. L’atmosfera in Cile è completamente irreale: la gente sparisce nel nulla improvvisamente, gli squadroni della morte fanno razzia in ogni dove. Tornato da Mosca, Valdés constata che tra i desaparecidos c’è l’amico Hugo Lepe, ex difensore del Colo Colo e terzo classificato col Cile al Mondiale del ’62, nonché architetto e co-fondatore del sindacato dei calciatori cileni. Probabilmente grazie alla mediazione di alcuni dirigenti del Colo Colo, Valdés riesce ad avere il contatto diretto con Pinochet. «Se è un attivista, sarà difficile che possa ritrovare il suo amico». Valdés si affretta a smentire: «Lavorava al Ministero delle Opere Pubbliche, ha simpatie di sinistra, ma non è un cospiratore». Valdés ottiene una specie di lasciapassare e inizia una ricerca infinita, tra commissariati e campi di detenzione. Il Chamaco è protagonista di un viaggio in un girone infernale: le sottili mura che dividono gli uffici dai luoghi di tortura non trattengono urla e pianti dei prigionieri politici. La partita di ritorno contro l’Urss è in programma il 21 novembre 1973, allo stadio Nacional, in uno dei luoghi dell’orrore. Ma da Mosca non arriva nessuno, l’Unione Sovietica si rifiuta di giocare lì, la Fifa si limita a registrare l’assenza. Scendono in campo solo gli undici giocatori del Cile, con l’arbitro. Sugli spalti ci sono quarantamila spettatori. Ma al Chamaco Valdés, capitano di quella squadra, interessa solo quello che distintamente nota in tribuna, prima di segnare il più irreale dei suoi più di trecento gol in carriera. Lo sguardo di Valdés incrocia quello dell’amico Hugo. Pochi secondi, un lungo sospiro: è lui, è vivo, tra poco lo riabbraccerà. In meno di un minuto si chiude il match farsa, che qualifica la Roja al Mondiale. Eleganza innata, mai una chiacchiera inutile o un’intervista da martire, il Chamaco spende l’ultimo tratto del percorso della sua vita ad insegnare calcio ai bambini, specie a quelli in difficoltà economiche. Muore nel 2009, a 66 anni. Il Cile è tornato da tempo a respirare un’aria di democrazia e libertà.