Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
Ieri il consiglio dei ministri non si è occupato dell’aumento dell’Iva, evento che fa notizia perché proprio l’Iva è il nuovo terreno di scontro tra centro-destra e centro-sinistra.
• E di che cosa si è occupato, allora?
Di un progetto che si chiama "Destinazione Italia" e che dovrebbe attirare capitali stranieri e italiani sulle nostre imprese (ne parleremo, siamo proprio all’inizio). Poi ha ratificato quattro accordi internazionali. Poi c’era il rifinanziamento delle missioni italiane all’estero. Quindi il capitolo delle privatizzazioni (Letta: «non siamo né Fort Apache, in cui si difende tutto con le unghie e con i denti, e neanche un outlet che svende tutto a poco prezzo»). Di Iva, nulla.
• Dovrebbe scattare il 1° ottobre, no?
Sì, dovrebbe aumentare di un punto. La massima andrebbe così al 22% dall’attuale 21.
• Come sono le posizioni?
Si riassumono in due dichiarazioni. La prima è di Brunetta, che se la prende con Olli Rehn: «È bastata la visita di un giorno a Roma di Rehn, con le sue inopportune dichiarazioni, che tutti adesso reputano inevitabile l’aumento dell’Iva a ottobre. Pare che anche qualcuno all’interno del governo se ne sia convinto. Gli accordi di maggioranza prevedevano che non aumentasse l’Iva a ottobre, e così sarà. Altrimenti non ci sarà più la maggioranza». Cioè, per l’ennesima volta si minaccia la crisi di governo. A queste parole ha risposto il democratico Stefano Fassina, viceministro dell’Economia: «L’aumento dell’Iva dal primo ottobre peserebbe negativamente sull’economia, non c’è dubbio. Va evitato, ma non vi sono gli spazi di finanza pubblica per affrontare entro la fine dell’anno Iva, Imu, cassa integrazione in deroga, missioni internazionali e interventi per rispettare il limite del 3% di deficit sul Pil. Un impegno, si ricordi, assunto dal governo Berlusconi, non da Letta o Saccomanni». Gli attacchi sono continuati, anche da altri esponenti politici, ma non vale la pena riferirli. Bisogna invece tenere conto del fatto che sul campo c’è un terzo soggetto: i commercianti. Giovanni Cobolli Gigli, di Federdistribuzione, sostiene che per pagare questo aumento gli italiani dovranno spendere quattro miliardi in più. Di questi, tre graveranno sulle spalle dei consumatori. Si paventa l’incremento del prezzo del carburante con effetti a cascata su tutti i prodotti, dato che le merci da noi viaggiano soprattutto su gomma. Dice ancora Bortolussi, della Cgia di Mestre (l’istituto di ricerca di Confartigianato): «Mi chiedo come sia possibile con una spesa di 810 miliardi non riuscire a trovarne uno per detassare i consumi, che sono la base della crescita». Ieri Bortolussi ha proposto che la Pubblica Amministrazione saldi altri sette miliardi di debiti. Il giro di soldi che si determinerebbe - dice - farebbe saltar fuori il miliardo per coprire il costo del mancato aumento. In realtà il governo sta meditando di rallentare il pagamento degli ultimi dieci miliardi stanziati.
• Chi è Rehn?
Olli Rehn, un ex calciatore che adesso fa il commissario europeo per gli Affari economici. È venuto l’altro giorno a Roma, in audizione davanti alle commissioni Bilancio di Camera e Senato. Ha detto che la linea europea, sposata a un certo punto anche da Tremoni (ma senza effetti pratici), è quella di spostare il peso della tassazione dalle persone alle cose. Cioè, va bene aumentare l’Iva, ma nello stesso tempo, secondo questo percorso virtuoso, bisognerebbe diminuire la pressione fiscale sugli stipendi. Il punto è che l’Italia non alleggerisce la fiscalità sui redditi e nello stesso tempo appesantisce quella sui consumi.
• Con l’Europa abbiamo problemi?
Sì, perché ieri si è scoperto che sfonderemo il tetto del 3% e sia pure di un misero 0,1 (che vale però un miliardo e mezzo). In queste condizioni parrebbe inevitabile aumentare l’Iva. L’Europa ci ha fatto sapere ieri, ufficialmente, che il 3,1 non è il 3 e bisogna provvedere. L’aumento dell’Iva vale sì un miliardo quest’anno, ma ne vale quattro l’anno prossimo. E dove si troveranno l’anno prossimo - e in tutti gli anni a venire - quattro miliardi, se non si taglia la spesa e non si vende qualcosa? Un’altra idea sarebbe quella di non aumentare l’aliquota massima, ma solo quelle intermedie: passare certi beni dal 4 al 10 e certi altri dal 10 al 21. Lei sa che sul pane, per esempio, ci sono almeno due aliquote (a seconda che sia semplice acqua, farina, lievito, sale oppure che contenga altri elementi come, dico a caso, le olive)? Non pare però che per questa via si riuscirebbero a trovare i soldi. Ma, insomma, ci stanno pensando. Sarebbe una tipica operazione-cacciavite, di quelle che piacciono al nostro premier.
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