Luca Raffaelli, Il Venerdì 20/9/2013, 20 settembre 2013
ANDREA PAZIENZA, MIO FIGLIO, CHE A 12 ANNI DISEGNÒ IL SUO FUNERALE
La mamma di Andrea Pazienza ha finalmente voglia di parlare e ricordare. Forse ne sente il bisogno. E Io fa con la sua moderata cadenza tra il marchigiano e il pugliese, formandosi talvolta per controllare le emozioni, o quando la commozione diventa troppo torte. Ogni tanto chiede alla figlia Mariella, che l’accompagna, se sta dicendo bene. Le chiede: «Ti ricordi, mamma?», dove mamma è il suo dolce intercalare. Giuliana Di Cretico, professoressa di educazioni tecniche a San Severo, è stata sposata con Enrico Pazienza, professore di educazione artistica. Andrea, il loro primo figlio (poi sarebbero arrivati Michele e Mariella), è stato uno straordinario artista del fumetto, morto a 32 anni nel 1988, venticinque anni fa. Enrico se n’è andato nel 1998, dieci anni dopo. Signora Giuliana, quando vi siete accorti del talento di Andrea?
«È stato un bambino particolare: ha cominciato a parlare tardi. A parte mamma e papa, le prime parole sono state catta e bia, carta e matita. Un giorno fece il disegno di un orso e noi sbalorditi gli chiedemmo: ma che cos’è? Orso!, rispose lui».
Quanti anni aveva?
«Diciotto mesi. Poi ha cominciato a scrivere. Scriveva e disegnava nello stesso momento. Mi accorgevo che spesso rideva da solo con il foglio davanti. Si divertiva per quello che stava inventando».
Scriveva anche poesie?
«Sì, tante. Molte le so a memoria. Per esempio: Dormi dormi dormi almeno tu che puoi dormire. Io penso a te tu non pensare a me».
La divertiva tutta questa creatività?
«Da ragazzino, fino alle medie, Andrea era timido, stava molto a casa. La mia paura era che lui mi morisse. Non so perché. Forse perché è stato il primo figlio ed era l’inesperienza che mi spingeva a essere protettiva e preoccupata».
A dodici anni Andrea ha disegnato il suo funerale.
«Quel disegno, invece di angosciarmi, mi liberò. Si vede il suo volto di ragazzino con gli occhi vuoti, tanti visi straziati dal dolore, c’è il mio, c’è quello del padre e poi la scritta: Andrea è morto. C’è anche qualcuno che ride. Io gli chiesi perché, e lui; mamma, c’è sempre qualcuno che è contento. Era convinto di diventare famoso: la bara era portata a spalla e sopra c’è un volo di corvi e un avvoltoio. È un disegno profetico».
A 13 anni andò a studiare a Pescara.
«Prima con un tema vinse il premio di un concorso nazionale. Ma la sua grande passione era per il disegno. Dovevamo mandarlo a studiare in un liceo artistico (lui era un anno avanti). Così decidemmo a Pescara, in collegio dai gesuiti. Dopo quindici giorni andiamo a trovarlo, annunciando la nostra presenza. Arrivati lo troviamo davanti al cancello: “Da quando avete detto che siete partiti sto qui ad aspettarvi”. Non stava bene. Cosi trovammo una sistemazione da una signora che lo trattava con affetto. Mi disse: mamma non dovevi dirle che mi piacciono i fegatini di pollo. Ormai non cucina altro...».
A Pescara per fortuna trova dei professori straordinari.
«Si, soprattutto Paolinelli e Visca. Hanno capito chi avevano di fronte. Con loro Andrea ha giocato, inventato, scherzato. E loro sono stati al gioco permettendogli di sviluppare tutta la sua giocosa creatività».
L’impressione è che costantemente cercasse di ricostruire una famiglia.
«È così. Nella scuola, ma anche dopo, nelle redazioni, in quella del Male, di Tango. Per lui la famiglia era importante. E con noi era sempre al massimo: se era arrabbiato era arrabbiatissimo, se era allegro allegrissimo, non stava mai nei limiti».
Perché arrabbiato?
«Soprattutto per i conflitti con il padre. Enrico lo avrebbe voluto pittore come lui, e si era accorto che Andrea invece preferiva un’altra forma d’espressione, e questo non lo poteva capire. Poi si è accorto che non condividevano neanche le idee politiche... Quando è andato a Bologna e ha realizzato i suoi primi fumetti di Pentothal io glieli nascondevo, proprio per evitare che poi tra di loro ci fossero delle discussioni».
Quelli sul Male, allora?
Ancora peggio. «Enrico era democristiano, Andrea il contrario. Enrico era ligio al canone, ed era anche religioso. Che poi si stimassero infinitamente è un’altra faccenda. Ma negli scontri erano teatrali. Ed è stato difficile per me e per i fratelli convivere con due personalità come loro. C’era poca concretezza nei loro comportamenti, sempre presi dai loro sogni e da se stessi. Però in una lettera Andrea scrive: papa, tu sei il più grande acquarellista che io conosca. Dai che ti faccio una mostra dove vuoi, cosi alla storia ci passi tu».
Leggeva tutte le sue storie?
«Non ho mai letto Pompeo. Perché non so come potrei reagire. So che dentro c’è tanta sofferenza e... credo che mi farebbe roppo male. Vede, io ho un rammarico».
Quale?
«Quello di non essere stata consapevole della vita di Andrea a Bologna. Andai nel ristorante dove era solito mangiare e la signora che ci lavorava mi prese da parte: signora, suo figlio è manipolato da persone che lo circondano e lo sfruttano. È vero, era strano Andrea. Il giorno in cui sono partita insieme a un amico di Foggia gli dissi: Andrea io vado, ma non mi piaci. Non sei l’Andrea di mamma. Lui mi ha rivolto uno sguardo di disperazione mai visto prima. Ci mettiamo in macchina e questo amico mi fa: signora non avrebbe dovuto salutarlo così. Non si era accorta che Andrea non stava bene? Ho pensato: “Io lo devo salvare in qualche modo”. Sto dicendo delle cose che non ho detto mai a nessuno... Allora ho cercato in tutti i modi di allontanarlo da Bologna e di portarlo a Montepulciano. Ci ha aiutato Vincenzo Mollica, anche nel trasloco. Purtroppo, non è bastato».