Renato Besana, Libero 20/9/2013, 20 settembre 2013
C’È SEMPRE UN PENTITO DIETRO L’ITALIA DEI MISTERI
Per riflesso condizionato dall’abitudine, il cronista associa la parola “pentito” a nomi quali Buscetta o Spatuzza e alle controverse vicende di cui sono stati protagonisti.
Paolo Sidoni e Paolo Zanetov, in Pentiti (Newton Compton Editori, pagg. 480, euro 9,90), non si addentrano però nei labirinti dell’ovvio, già sommersi da diluvi d’inchiostro. Nel loro libro precedente, Cuori rossi contro cuori neri, avevano ricostruito gli ambigui rapporti tra politica e criminalità nella storia d’Italia. In questa nuova prova, si muovono in acque ugualmente torbide: come recitava una sentenza emessa a inizio Novecento, citata nell’introduzione, «la prova non può essere fornita da gentiluomini, ma da individui della stessa risma se non peggiori» di chi si è macchiato dei reati sui quali s’indaga. Un profilo, questo, che ben si attaglia alla realtà umana dei personaggi sui quali si concentra la ricostruzione degli autori e che si estende a tutte le parti in gioco: lo scambio tra informazioni e alleggerimento della condizione detentiva, sul quale si fonda il rapporto tra collaboratori di giustizia e inquirenti, si presta a mille contorsioni.
Sidoni e Zanetov dedicano un breve capitolo iniziale ai primi pentiti di mafia: un monaco siciliano che nel 1940 aveva ucciso due confratelli, un medico suo malgrado affiliato all’onorata società, uno psicolabile in crisi religiosa. Dopodiché la trattazione affronta i grandi casi di cronaca dagli anni Settanta alla soglia del nuovo secolo: la Milano nera di Turatello ed Epaminonda, le Brigate rosse, la strage di Bologna, il processo Tortora, la banda della Magliana e, infine, la mala del Brenta. Storie in apparenza a se stanti, ma che rivelano sotterranei quanto profondi legami. Francis Turatello, detto “Faccia d’ange - lo”, e il “Tebano”, cioè Angiolino Epaminonda, gestivano un giro d’affari che, in vecchie lire, ammontava a miliardi. Lo stesso vale sia per la banda della Magliana, sia per un altro “Faccia d’angelo”, cioè Felice Maniero, che arrivò a controllare l’intero Nord-Est. Droga, rapine, sequestri, gioco d’azzardo e usura generavano uno spropositato flusso di denaro sporco, destinato alla zona grigia ai confini della legalità. Tra i referenti dei maglianesi figurano faccendieri quali Flavio Carboni; sopra di lui, Gelli, Calvi e, forse, monsignor Marcinkus. Maniero, a sua volta, intrattiene un cospicuo commercio d’armi con il figlio del presidente croato Franjo Tudjman, impegnato nella guerra con la Serbia. Il traffico è garantito dai servizi segreti, la cui presenza spesso riaffiora negli snodi cruciali dei pentimenti carcerari. Ombre mai dissipate si addensano su Patrizio Peci e la sua dissociazione dalle Br. Ipotesi e confidenze sul rapimento Moro rimbalzano da una prigione all’altra. Uomini dei servizi seguono a passo a passo l’omicidio di Renatino De Pedis, il più determinato tra i boss della Magliana, poi sepolto in una chiesa romana per mai chiarite benemerenze. Un mitra Mab, che dai Nar passa all’armeria della banda, riappare in un tentativo di depistaggio messo in opera durante le indagini sulla strage di Bologna.
In questo caso, la manipolazione dei pentiti occupa un ruolo decisivo. La condanna di Francesca Mambro e Giusva Fioravanti si basa in sostanza sulle dichiarazioni mendaci di Massimo Sparti, piccolo furfante rimesso in libertà in perché affetto da tumore in fase terminale; sopravvisse altri trent’anni in ottima salute, compiendo reati vari. Il secondo accusatore, cui Luigi Ciavardini deve trent’anni di carcere quale esecutore materiale della strage, è Angelo Izzo, il killer del Circeo, maniaco omicida che riferisce inverificabili voci di galera. Ottenuta la semilibertà per i suoi servigi, uccide altre due donne.
L’orrore giudiziario di Bologna fa il paio con il processo a Enzo Tortora. I suoi principali accusatori sono Gianni Pandico, detto “o pazzo”, dichiaratamente psicopatico, e Pasquale Barra, “o animale”, che in carcere aveva ucciso Francis Turatello strappandogli il cuore. Quando le loro dichiarazioni si smontano appare Gianni Melluso, rapinatore da strapazzo che parla a comando, come molti altri. In un’intercettazione telefonica, una pentita della Magliana, Fabiola Moretti, afferma: «Io Andreotti non ce lo posso fa’ arrivà, co’ tutta la bona fantasia, non lo conosco». Gli inquirenti pretendono da lei che coinvolga il divo Giulio dell’omicidio di Pecorelli; se la caverà puntando il dito contro Claudio Vitalone, senatore andreottiano poi prosciolto da ogni addebito.
Pentiti offre uno stringente racconto, documentato fin nei dettagli, che compone un quadro multiforme. Sidoni e Zanetov non cercano di dimostrare tesi precostituite; tocca al lettore trarre le amare conclusioni: Maniero ancor oggi sfreccia sulle rive del Brenta a bordo della sua Porsche azzurra, la strage di Bologna e la banda della Magliana sono finite nel calderone dei misteri italiani, i magistrati che perseguirono e condannarono Tortora hanno fatto carriera, le mafie prosperano, la giustizia è allo sfascio. Viva l’Italia.