Enrico Mannucci, Sette 20/9/2013, 20 settembre 2013
DA 500 ANNI QUESTO MARMO È IL PREFERITO DI PAPI E ARTISTI
Che cosa hanno in comune Michelangelo Buonarroti, un ex ufficiale dell’esercito napoleonico e un “baronetto mancato” di sua maestà britannica scomparso una trentina di anni fa? Per il primo e il terzo, cioè Henry Moore (che nel 1951 rifiutò l’onorificenza), è facile: due scultori, comunque eccelsi. Il secondo è quello che li unisce al di là delle capacità artistiche, perché Jean Baptiste Alexandre Henraux, nel frattempo diventato “Soprintendente Regio alla scelta ed acquisto di marmi bianchi e statuari di Carrara per i monumenti pubblici di Francia”, tradì una parte del compito ufficiale, spostò le sue attenzioni qualche chilometro più a sud e si appassionò – beninteso, con notevoli interessi economici – al rilancio della cava sul monte Altissimo dove Michelangelo aveva lavorato dal 1518 al 1520 e che era stata poi abbandonata fino a divenire praticamente irraggiungibile. Lì, quasi cinque secoli dopo Michelangelo e 135 anni dopo la comparsa di Henraux, Moore avrebbe tratto la materia per molte opere, contagiando nella scelta tanti altri artisti.
L’Altissimo coi suoi 1.559 metri non è la cima più alta delle Alpi Apuane. È nel retroterra versiliese, in provincia di Lucca, un tempo territorio mediceo (e infatti i papi della casata che commissionarono a Michelangelo i lavori in San Lorenzo insistettero perché i marmi fossero scelti lì, e non dalle parti di Carrara che apparteneva ai Malaspina). Si vede però bene dalla costa, sei-sette chilometri in linea d’aria, da Forte dei Marmi che, in pratica, venne creata per servire la montagna e le sue ricchezze: il pontile attorno a cui sorse il paese era l’imbarco per i marmi delle cave.
Jean Baptiste Alexandre non è il primo a riscoprire il monte dal marmo meraviglioso. Un agiato signore del luogo, Mario Borrini, ha già cominciato a comprarne parti considerevoli. Qualche mese dopo questi contratti, Henraux arriva, da esperto che può valutare bene la situazione, assieme a un ispettore inviato dal granduca di Toscana. La relazione del sopralluogo, in data 19 ottobre 1820, spiega tutto quel che succederà poi, parlando del francese: «Anco per propria curiosità, è andato tentando con aiuto di guide e corde, gran tratta di quella faccia del Monte, recando mostre; e conclude con me, che il tutto è formato del medesimo statuario bellissimo, sotto una crosta nerastra e lacera che lo ricopre…». Giovanni Fabroni, Commissario alle miniere di Stato che lo accompagna, scrive, contagiato dall’entusiasmo: «Pare sia da credere che il Marmo di Monte Altissimo, non avendo maggior trasporto e niun dazio, vinceranno (sic) in economia ed in più schietto candore quello delle attuali cave di Carrara; attireranno le Commissioni dell’Universo…».
Nasce una società fra Borrini e Henraux che porta lavoro e prosperità al bacino attorno alla cittadina di Seravezza: in un decennio, decuplica il numero delle cave nel territorio versiliese e si moltiplica per cento – arrivando oltre i 1.600 addetti – il numero degli scalpellini, cavatori e lizzatori occupati. Ma non sono solo rose e fiori. Per tutto l’Ottocento, intorno al marmo dell’Altissimo si accapiglieranno in molti, nella Henraux entrano nuovi soci e ne escono di antichi, qualcuno ci lascia, economicamente, le penne anche se il successo dell’azienda continua, grazie anche alla modernizzazione di cave (con l’uso del filo elicoidale e dei martelli pneumatici) e segherie (coi telai a distribuzione automatica della sabbia silicea).
Nel 1921 la ragione sociale è “Società anonima S. Henraux”, ma gli eredi del fondatore stanno per lasciare la scena: resta il nome nella società, ma la proprietà è a maggioranza belga. Sparisce anche il nome, poi, con le scelte autarchiche del fascismo, e, nel 1940, viene battezzata la “Società Marmifera Italiana”.
Dopo la guerra, il nome originale viene resuscitato, ma la proprietà passa a un italiano, Erminio Cidonio. Alla ditta arrivano commesse importanti: il pavimento in marmi policromi per il sagrato della basilica di S. Pietro in Vaticano e, più consistente ancora, l’enorme impresa di ricostruzione dell’abbazia di Montecassino, distrutta dalle bombe alleate, un lavoro che impegna le maestranze dell’azienda per tutti gli anni Cinquanta a riprodurre capitelli, colonne, altari, pavimenti, decorazioni e balaustre.
Tornano i grandi maestri. È anche un tempo, però, in cui il marmo comincia a entrare in un cono d’ombra. Per diverse ragioni: in Italia, perché evoca troppo l’architettura del regime; nella chiesa, perché il Concilio Vaticano riduce drasticamente “ornamentazione e statuaria negli edifici ecclesiastici”; nelle grandi costruzioni civili, perché cemento armato e plastica vengono considerati più “democratici” del marmo.
Qui, Cidonio ha un’intuizione e imbocca una strada alternativa. Decide che per dare nuovo impulso al settore marmifero bisogna promuovere l’impiego dell’antico materiale nel campo della scultura contemporanea, coinvolgendo grandi maestri e giovani artisti. È così che nelle cave e nelle segherie di Seravezza e dintorni arrivano, oltre a Moore, celebrità come Hans Arp, Juan Miró, Georges Vantongerloo. È così che nasce una raffinata – e purtroppo effimera – rivista come Marmo. Ed è così, anche, che nasce un centro di scultura contemporanea dove ospitare giovani scultori e, più di recente, il progetto di una grande Fondazione dove far convergere archivio, la collezione di sculture e bozzetti rimasti alla ditta, documenti e nuove iniziative: insomma, tutto il passato e il futuro dell’Henraux.
La storia, comunque, è capricciosa, come osserva Philippe Daverio nell’introduzione a un volume sulla Fondazione Henraux curato da Costantino Paolicchi, e, in tempi vicini a noi, arriva la crisi del mercato immobiliare: «Il marmo torna protagonista assieme a tutti i materiali che garantiscono durevolezza, il legno, la terracotta, il ferro, il vetro, i materiali plastici nobili, le calci e i colori reinventati. Il costruire è tornato a credere nella prospettiva temporale lunga. Anzi, scopre la contraddizione della nostra epoca moderna: mentre i materiali che di recente ci hanno affascinato iniziano una loro inesorabile decadenza dal momento stesso nel quale sono posti in opera, i materiali classici acquisiscono fascino col passare del tempo». È quello che hanno pensato i dirigenti della Exxon Mobil che hanno appaltato a Henraux la fornitura di marmi e pietre per il nuovo quartier generale di Houston. Così, assieme all’arte, si torna alle grandi costruzioni civili.
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