Roberto Giovannini, La Stampa 20/9/2013, 20 settembre 2013
A MANI NUDE E A MARTELLATE COSÌ “MUORE” UNA NAVE
Benvenuti su una delle coste più inquinate e pericolose del mondo. Su questa fangosa spiaggia di marea, a pochi chilometri da Chittagong, il principale porto industriale del Bangladesh, giacciono incagliate decine e decine di navi. Carrette dei mari, superpetroliere, immense portacontainer, che alla fine della loro vita (molto dopo aver smesso di poter navigare in sicurezza) sono scagliate qui per essere smantellate nei «cantieri» che si susseguono. Sitakund, come Alang in India o Gadani in Pakistan, è uno dei buchi neri del pianeta dove il mondo ricco scarica serenamente la sua immondizia; dove migliaia di poveri disgraziati smantellano navi intere a mani nude, con l’ausilio di una fiamma ossidrica e di martelli, caricandosi sulle spalle lastroni di acciaio pesantissimi. Gente che sgobba per paghe ridicole, 20 centesimi l’ora, undici o dodici ore al giorno, senza alcuna misura di sicurezza e senza nessuna tutela. Molti di questi lavoratori sono ragazzini che si calano nelle fauci di queste navi con un semplice dhoti (il tradizionale pantalone fatto con un telo) e delle ciabatte di plastica. I loro datori di lavoro fanno scaricare nelle acque del Golfo del Bengala - qui nere, oleose, fetide, coperte a perdita d’occhio da una patina iridescente di schifezza - le tonnellate di prodotti nocivi che una nave da smantellare contiene. Carburante, olio, detersivi, il cancerogeno asbesto usato come isolante delle condotte, i residui del carico nelle stive. E metalli pesanti, vernici, PCB, gli acidi delle batterie, o la tribulitina, un biocida contro le incrostazioni altamente tossico e bandito dal 2003.
Fosse possibile anche la Costa Concordia verrebbe forse spedita su questa spiaggia in nome della globalizzazione. E invece verrà smantellata con tutta probabilità come si deve in un cantiere italiano. Se la contendono i porti di Palermo, Genova, Napoli e Piombino, ognuno con i suoi problemi e i suoi punti di forza. C’è anche la Turchia, destinazione alternativa ai porti italiani che forse potrebbe rientrare in gioco per alcuni vantaggi dal punto di vista del costo (basso) del lavoro e standard diversi sui rischi ambientali.
Qui a Sitakund distruggere una nave costa quasi niente. La manodopera è regalata. Per «verificare» che in fondo alla stiva non ci siano gas mortali, si lega a una corda un pollo e lo si cala: se torna su vivo, si mandano gli operai a lavorare. Incidenti sono all’ordine del giorno: come ci spiega Chandan Chowdhury, coordinatore dell’associazione Songshoptaque, «è meglio morire che farsi male e restare infortunati». Se muori, la tua famiglia ha diritto a 125 mila taka, 1250 euro. Se resti ferito, hai diritto solo alle cure di base e tre giorni di paga. «Una volta, quando non c’erano i telefonini - continua Chandan - se c’era un incidente mortale i padroni dei cantieri si limitavano a gettare i cadaveri in mare. Adesso non lo fanno più». Certamente i giornalisti non sono ospiti graditi.
Il business dello smantellamento funziona così. Dei mediatori senza scrupoli, in cambio di danaro, rilevano le navi da smantellare dagli armatori. E le vendono ai padroni dei cantieri navali sulla costa, che la disfano metodicamente. Ogni pezzo - dal singolo bullone fino ai cavi elettrici, dai motori delle ancore all’arredamento delle cucine, dai compressori ai generatori elettrici - viene venduto all’asta. Si recupera anche il prezioso acciaio degli scafi: questo metallo finisce nelle acciaierie della zona, assicurando il 60% del fabbisogno dell’intero Bangladesh. Nei «cantieri» lavorano almeno trentamila persone, di norma per cicli di sei-otto mesi prima di essere licenziati.
Riciclare è bello. Soltanto che avviene a spese delle persone e dell’ambiente. In una baraccopoli di Chittagong c’è la «casa» di Mohammed: faceva il pescatore, ma ormai vivere su quel mare tossico è impossibile. Si tagliano le foreste di mangrovie, si appestano le falde di acqua potabile. A fianco della «Ava», una motonave giapponese costruita nel 1983 e venuta a morire qui, c’è un ragazzo di sedici anni con un volto da «grande», Samjan Ali: «Lavoro nel cantiere da quando avevo 13 anni - racconta - ho preso il posto di mio padre che era morto per un incidente. Siamo almeno quindici noi minorenni. Ma adesso sono disoccupato». Hassan Badsha ha 19 anni, e come operaio specializzato guadagna 40 centesimi l’ora: «Lavoro in questo cantiere da sei anni, e ho visto molti incidenti, persone che hanno perso le dita o le mani. Altri rimasti schiacciati sotto le lastre d’acciaio». In qualche azienda sono state introdotte le gru con elettromagneti, che però riducono il fabbisogno di manodopera e portano a licenziamenti.
Sì, perché poi alla fine tutto si giustifica in nome dello sviluppo e della competitività. Un discorso che si conosce fin troppo bene. Tutto il mondo è paese, fa capire Sawrav Barua, presidente di Songshoptaque. «Noi diciamo che l’inquinamento ha un prezzo, e che chi inquina deve pagare - dice - ma il figlio del deputato di Chittagong, Abdul Kerim, ha un cantiere navale. E se i padroni sono anche politici, per chi pensate che faranno le leggi?».