Vittorio Malagutti e Luca Piana, l’Espresso 20/9/2013, 20 settembre 2013
Un ciclone in BANCA. Ispezioni, ribaltoni tra i manager, pulizie nei conti. In vista della vigilanza europea, il governatore Visco passa al setaccio il sistema creditizio
Un ciclone in BANCA. Ispezioni, ribaltoni tra i manager, pulizie nei conti. In vista della vigilanza europea, il governatore Visco passa al setaccio il sistema creditizio. Tra le proteste dei banchieri. Che cercano nuovi soci– Banca d’Italia o Banca anti-Italia? Basta il recente strillo di copertina di un settimanale specializzato ("Milano Finanza") per capire l’aria che tira al vertice dei grandi istituti di credito. I banchieri si sentono messi all’angolo. Da mesi la vigilanza li marca da vicino. E questa volta non c’è spazio per discussioni e negoziati. Il governatore Ignazio Visco ha tracciato la rotta verso l’appuntamento con l’Unione bancaria europea, fissato per l’inizio del 2014. Dal prossimo anno un unico regolatore sorveglierà la gestione delle 130 banche più importanti dei Paesi dell’area Euro, di cui 13 italiane. E allora non si scappa. Gli istituti tricolori dovranno avere i conti in regola per passare la verifica gestita nei prossimi mesi dalla nuova vigilanza con base a Francoforte. Il confronto più aspro tra i banchieri e Visco si è aperto sulla valutazione dei crediti a rischio. La raffica di ispezioni scattate all’inizio dell’anno, venti in tutto, si sono concluse con un bilancio non proprio lusinghiero per alcune banche di media grandezza. Non per niente, concluso il primo giro, i controlli sono subito ripartiti su un gruppo più ristretto di otto istituti, tra i quali Carige, Popolare Emilia (Bper), Popolare Etruria e Veneto Banca. Bankitalia ha usato la mano pesante, imponendo accantonamenti a copertura dei crediti a rischio di gran lunga maggiori rispetto al recente passato. Da qui la polemica con i manager che siedono ai vertici degli istituti. Il giro di vite imposto da Visco ha infatti sensibilmente ridotto, e in qualche caso azzerato, gli utili in bilancio. Peggio ancora. Da più parti la politica rigorista del governatore viene attaccata perché sottrae risorse preziose proprio quando, nel pieno di una recessione senza precedenti, le banche avrebbero bisogno di nuova benzina finanziaria per far ripartire il motore della ripresa. Senza contare, fanno notare molti analisti, che nel resto d’Europa le cose funzionano diversamente. Negli altri Paesi dell’area euro, a cominciare da Francia e Germania, i criteri con cui vengono individuati i prestiti a rischio sono meno severi rispetto a quelli italiani. La stessa Banca d’Italia, nel documento pubblicato a fine luglio per riassumere i risultati dei suoi interventi, ha indirettamente sottolineato i margini di manovra più ampi di cui dispongono i colossi stranieri del credito. Nel condurre l’operazione pulizia, tuttavia, Visco non ha mostrato indulgenza. Ai mercati «bisogna trasmettere un messaggio di serietà, eliminando le opacità», ha ammonito sabato 14 settembre, due giorni dopo il via libera del Parlamento di Strasburgo al provvedimento che assegna alla Banca centrale europea la vigilanza sul sistema creditizio. Pur tributando l’onore delle armi ai banchieri («il sistema ha tenuto a dispetto di una caduta del Pil del 9 per cento negli ultimi 5 anni», ha concesso), il governatore ha anche ribadito che gli istituti «devono mettersi a posto per sostenere i gravi rischi che l’economia ha ancora davanti». La ragione di tanta determinazione va cercata in un dato emerso nei primi anni di recessione, quando le 61 principali banche europee hanno effettuato aumenti di capitale per la bellezza di 250 miliardi di euro. Durante questo enorme sforzo, c’è un fattore che ha destato allarme: la sistematica assenza dei grandi investitori internazionali, soprattutto americani. Aumenti di capitale, prestiti obbligazionari, operazioni di finanziamento a breve: quando a battere cassa erano le banche europee, Oltreoceano non ne volevano neanche sentir parlare. Il motivo? Il timore che nei bilanci, tra derivati e prestiti alla clientela, si nascondesse una rilevante mole di perdite. Ecco perché più istituzioni, Fondo monetario internazionale, Bce e Eba, l’authority delle banche europee, hanno più volte invitato a fare chiarezza. L’offensiva di Bankitalia, condotta a suon di ispezioni tra la fine 2012 e l’estate scorsa, ha messo alle strette i gruppi dirigenti di alcuni istituti di peso. A parte il caso Banca Marche, che ha visto il primo ribaltone al vertice già nel luglio dell’anno scorso, la vittima più illustre è stata Carige, costretta a portare alla luce sofferenze e crediti incagliati per centinaia di milioni prima mai messi a bilancio e, va detto, neppure individuati dalle autorità di vigilanza. Il repulisti ha prodotto anche il cambio al vertice, con Giovanni Berneschi - da due decenni padre padrone dell’istituto - costretto alle dimissioni. Basta scorrere la tabella pubblicata a pagina 113 per notare che l’intervento degli ispettori di Visco ha prodotto gli effetti più evidenti nelle banche di media grandezza con forte radicamento in aree a grande densità di imprese minori e artigiani. E così la Popolare dell’Emilia, guidata dal nuovo amministratore delegato Luigi Odorici, ha visto crescere i crediti deteriorati quasi del 20 per cento tra giugno 2012 e lo stesso mese del 2013, fino a superare la soglia del 13 per cento del portafoglio complessivo dei prestiti. È andata peggio a Veneto Banca, che nella semestrale chiusa a giugno segnala impieghi a rischio cresciuti del 35 per cento rispetto a un anno prima. Rettifiche su crediti in forte aumento anche per la Popolare Etruria così come per le lombarde Credito Valtellinese e Banco Desio. Tra i primi della classe, i giganti di peso internazionale, Intesa ha rafforzato del 25 per cento le riserve a copertura di sofferenze e incagli, mente Unicredit si è mosso in senso inverso: le rettifiche stanziate nel primo semestre 2013 sono state inferiori del 10 per cento circa al 2012. Va detto però che l’ampia rete di filiali estere (dalla Germania alla Turchia) tiene parzialmente al riparo l’istituto milanese dalle ricadute dei problemi italiani. Per il ciclone Visco, tuttavia, i veri ostacoli rischiano di arrivare solo nei prossimi mesi, quando al repulisti dovranno seguire aumenti di capitale che, per diverse banche, sarà arduo portare a termine. È vero che alcune ce l’hanno fatta. La Popolare Etruria ne ha appena concluso uno da 100 milioni, mentre la Popolare Vicenza ha raccolto già a giugno ben 506 milioni. Nel giro di pochi mesi, tuttavia, a istituti come Monte Paschi, Carige, Popolare Milano, Banca Marche, Tercas e altri più piccoli serviranno più di cinque miliardi. Per comprendere le difficoltà del momento, il caso più eclatante è quello del Monte Paschi, dove il nuovo management guidato da Alessandro Profumo è stato obbligato dalla Commissione europea ad aumentare da 1 a 2,5 miliardi la ricapitalizzazione prevista, pena la nazionalizzazione. Il secondo caso è quella della Popolare Milano, dove il numero uno Andrea Bonomi è incappato in uno stop imprevisto nel suo piano di trasformazione in società per azioni. Era stato lo stesso Visco, la primavera scorsa, a pronunciare quello che a molti era sembrato un "de profundis" per le banche popolari, dove il meccanimso del voto per testa finisce per blindare il controllo dell’assemblea a favore di una cerchia ristetta di soci. La rivoluzione di Bonomi, tuttavia, è stata bloccata dai sindacati interni, abituati in passato a fare il bello e cattivo tempo. E così, nell’ultima ispezione, Bankitalia si è trovata costretta a non forzare la mano, invitando tutti a abbandonare «la crescente conflittualità» per non mettere a rischio il previsto aumento da 500 milioni. Viste le difficoltà, è impossibile prevedere gli assetti azionari di varie banche al termine delle grandi manovre. Anche perché le soluzioni di mercato - come la fusione fra istituti o eventuali scalate dall’estero - sono complicate dalle stesse incertezze che gravano sugli aumenti di capitale. Ecco perché, tra i banchieri, resta viva la speranza di qualche soluzione straordinaria, che li aiuti a superare l’impasse. La prima è quella di una società veicolo, in parte finanziata dal governo, alla quale gli istituti cederebbero le loro sofferenze: una strada impopolare ma che Bankitalia starebbe ancora studiando. La seconda è che, dopo la vigilanza europea, si concretizzi anche il fondo unico d’intervento per i fallimenti bancari. Un progetto che non piace ai tedeschi. Ma che le banche italiane, alle prese con la sfiducia degli investitori, accoglierebbero come una boccata d’ossigeno.