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 2013  settembre 20 Venerdì calendario

COMPIE CENT’ANNI L’ENCICLOPEDIA

DELL’IMBECILLITÀ –
Lo aveva «progettato» quale appendice al suo Bouvard e Pécuchet. Vagheggiata summa dell’imbecillità umana. Non riuscì per avvenuta infungibilità. Morì improvvisamente. La sorte doveva aver voluto, per suo imprevedibile capriccio, che lo stravagante universo esplorato da Gustave Flaubert fosse esibito con un libro non finito. E che quella incompiutezza, almeno metaforicamente, desse una vaga idea della siderea galassia che è la stupidità umana.
Bouvard e Pécuchet è la storia di due illusi copisti. Riconosciutisi eguali nei sogni e nelle aspirazioni, decidono di ritirarsi in campagna per compiere ogni genere di indagine. La loro certezza è nella carta stampata. Vogliono esplorare l’universo mondo. E così s’intignano sui libri di agronomia, chimica, scienze naturali, medicina, geologia, archeologia, storia, letteratura, politica, sociologia, metafisica, religione, pedagogia... Nessun campo dello scibile soddisfa le loro aspirazioni. Ogni volta sono costretti a contemplare cumuli di delusioni. Torpidi, sono prostrati dagli insuccessi. In Bouvard e Pécuchet Flaubert ha filtrato la propria spossatezza di fronte all’orrore per l’imbecillità. Uno sconcerto che esercita anche un sottile fascino. Ai due sconfitti delle tante sapienze, versus Flaubert, non rimane che compilare un consolatorio calepino di disinganni e delusioni. Risulterà un catalogo di idiozie. Una soave e superba caricatura del genere umano. Uno sprezzante e sornione profilo del mondo. Il dileggio per la sciatteria. Una «rivolta» contro la supponente vacuità dell’homo sapiens.
La saga dei due copisti è una grossa farsa in cui Flaubert sfoga tutto il proprio disappunto per lo spirito borghese. Con un’idea centrale. Palate di ironia su chi vede la certezza di una risposta ultima nella scientificità, applicata a ogni campo dello scibile. Il sarcasmo di Flaubert si mischia all’ira per la condizione esistenziale da cui tutti siamo trafitti. È il dram ma. Viviamo in mezzo agli stupidi. Sottintendendo: «Fin che li vedo sono salvo. Non faccio ancora parte della schiera».
E contempla i due grotteschi tristi copisti con commossa commiserazione, l’animo inquinato di malinconia e disgusto. Le due creature, molto inconsciamente, soffrono dell’imbecillità da cui sono assediati. E loro stessi ne sono l’incondizionato riflesso. Ammaliati comunque da una incrollabile fiducia per la parola stampata, quale che sia. Flaubert percepisce il rischio di rimanere impigliato nel delirio. «A momenti mi sembra di diventare scemo», scrive a Turgenev. «Forse dipende dal fatto che sono troppo pieno del mio argomento, che la stupidità dei due brav’uomini mi invade». Come i suoi due sciagurati controtipi porta anch’egli la croce della carogneria, ma se ne diletta e ne nutre la sua scrittura. Delle tante enormità pescate nelle biblioteche, nei giornali e in società, è al tempo l’esploratore, il cancelliere, l’erudito burlone. «Quando non sarò più indignato cadrò anch’io bocconi». L’esito è tanto naturale quanto ovvio: documentare in una enciclopedia tutta la stupidità umana, ricopiando i deragliamenti dell’intelligenza.
«Ed erano non poco emozionati quando attraversarono il villaggio e giunsero all’Albergo della Croce d’oro...». Il manoscritto di Flaubert si ferma qui. Lasciò una quantità di appunti. Soprattutto quella strana appendice che avrebbe dovuto concludere le avventure dei due vanagloriosi. Flaubert immaginò quell’elencazione di effrazioni sapute come superbo continuum, compilato dai due copisti. Un catalogo di sentenze fondamentali. Avevano fallito in tutto. Non restava loro che raccogliere, per tramandarle, il frutto delle intelligenze umane. Compilazione venuta poi all’onor del mondo come il Dizionario dei luoghi comuni, coniugato a Sciocchezzaio e Catalogo delle idee chic. Pubblicato come opera autonoma nel 1913, giusto cent’anni fa. I modelli ispiratori si esibivano comunque dall’origine del mondo. Edizioni successive aggiunsero poi, grazie all’acribia e al furore di eminentissimi filologi che ramazzarono nel monumentale brogliaccio lasciato da Flaubert quando il capo suo piombò fulminato sul tavolo di lavoro, nuovi inediti in tema, come Album della Marchesa, «relazioni» da un salon parigino. Naturalmente declinate sulle forme che la nobiltà, i sussiegosi borghesi e certa intellettualità salottiera sa dare di sé. Il meglio. Nell’insulsaggine delle conversazioni. Con tutte le ruffianerie del caso. Imperdibili seriosità nella loro impressionante insipienza: Sottili sopracciglia quelle della Marchesa, nette e regolari come Varco di un ponte... La vedevo senza guardarla, come a una giovane madre che allatta il piccolo... Le sue dita di fata, dalle unghie rosse e lucide come conchiglie appena raccolte sulla riva e ancora umide delle acque del mare, sembravano fatte apposta per pigliare farfalle e cogliere fiori...
Anche la letteratura entra di diritto nella stupidera. Autori vacui, autocelebrantisi, vedette del nulla. E giù libri. Quantità tali da creare una costellazione claustrofobica. Involontariamente comico, disperato, preoccupato, Flaubert tentò inutilmente di dare l’allarme: «Ciò che sarà alla ribalta tra uno o due secoli sarà roba da far vomitare un uomo passabilmente equilibrato». Con il suo Dizionario preavvertiva i posteri del disastro. A non ricadere negli errori dell’epoca sua. Tempo perso. Il difetto non sta nell’epoca.
Riproduceva il mondo attraverso scrap da giornali e da libri. Esplorava autori luminosi e quelli d’ultima scelta. Anche l’imbecillità stampata è trasversale. Blair: I pescatori sono meno belli degli agricoltori; Proudon: La Venere di Milo, che volete che importi a me, cittadino del diciannovesimo secolo? Tutta quella nudità; Abate Bautian: II piano forte è pericoloso quando accompagna il canto; Rousseau: La letteratura e una scempiaggine che distoglie gli uomini da azioni pericolose; de Maistre: II rosa e il bianco sono due colori consacrati al piacere e alla felicità, la natura le ha dato la corona dell’impero di Flora; Philoméne Boyer: Questo dramma in cui mi sono rinfrescata nelle mie lacrime; du Terrail: Deporle un bacio in fronte è prendersi una pallottola nello sterno...
Tra sommi e minimi, il paragone con certi letterati del nostro tempo è sorprendente. Indagare per conferma.
Enfant encombrant, preludio a una vita di scontrosità, a nove anni, con un’ancora incerta ortografia, Flaubert scriveva «...siccome c’è una signora che viene da papa e ci racconta sempre delle sciocchezze, le scriverò». La confessione di Gustavo bambino non è che l’ouverture dell’esplorazione, durata una vita, di quella costellazione che è peculiarità di ogni società. Un conglomerato universale che porta tutti a dire stupidaggini, il cui inarrestabile motore è la fatua supponenza, congenita all’umano.
Frasi e modi di dire che Flaubert collezionò ogni giorno. L’acqua del mare tiene a galla, L’acqua di Colonia ha un buon odore, Albicocche. Anche quest’anno ne avremo. Lo spirito e lo champagne scorrono a fiumi, Il cipresso cresce soltanto nei cimiteri. Il Corano un libro che parla soltanto di donne. Tutti i cuoi di qualità vengono dalla Russia, I denti li rovinano i confetti e il ghiaccio, I domestici sono tutti ladri, Il dolore vero è quello sempre contenuto. Gli elefanti si distinguono per la memoria. Felicità. È sempre per fetta, Forchetta. Devono essere sempre d’argento, sono meno pericolose, Foruncolo. Segno di salute, Freddo. Più sano del caldo. Fricassea di coniglio. Sempre fatta col gatto. Gobbi. Ricercati dalle femmine lascive. Per scrivere un romanzo basta avere immaginazione.
Flaubert vagheggiava un’opera non di un singolo autore. Sognava un’opus corale. Scritta dall’umanità intera. Una raccolta della minuta e solenne saggezza quotidiana. Un libro dove adunare tutte le scempiaggini che, ogni nanosecondo, gli uomini propalano: sentenze che, secondo l’acquisita eleganza del lessico d’oggidì, sta per «sparare cazzate».
L’epoca nostra è riuscita a realizzare il sogno di Flaubert. L’opera collettiva. Twitter. Le chiacchiere da bar, le assemblee condominali, le relazioni del sommo accademico, gli appelli e le dichiarazioni dei politici, le sentenze dei letterati e dei commentatori, i moralismi dei giornalisti, i protocolli degli scienziati, le esortazioni dei leader, presidenti d’ogni consesso, eminenti cardinali e pontefici dilagano in rete. Cinguettano in miliardi. In ogni lingua. Effondono per l’etere le loro «formidabili pensate».