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 2013  settembre 20 Venerdì calendario

IL RUGGITO

del Leone. Dal Gange al Grande Raccordo Anulare. Chi è Gianfranco Rosi. Che con il suo documentario "Sacro Gra" ha stregato Venezia–

A mia figlia per evitarle illusioni e delusioni, avevo detto che per regolamento i documentari non possono vincere il Leone d’Oro. Ero sicuro che nessuna giuria veneziana avrebbe dato non solo il massimo, ma neanche un minimo premio a "Sacro Gra"». Ma a sorpresa di tutti, figlia inclusa, la 70ma Mostra del Cinema l’ha vinta proprio lui, Gianfranco Rosi che con Francesco non ha niente a che vedere, ma per sfinimento di fronte alla domanda, più volte è stato tentato di dire «sono un figlio illegittimo». Invece è nato ad Asmara nel 1964 e lì è vissuto fino a 11 anni. Da qui sulla sua famiglia d’origine cala un mistero che lui protegge da ogni intervista. Gli si strappa solo qualche immagine e uno sfocato ritratto di apolide, avventuroso, nomade. Due anni di medicina alla Normale di Pisa, poi nel 1985 una fuga a New York e l’iscrizione alla NYU film school.
Il tempio della fiction, la scuola che ha formato sia Jim Jarmush che Spike Lee o Joel Cohen. Lui però dichiara che i suoi maestri sono Mizoguchi, Ozu e Robert Kramer. E fin dall’inizio cerca storie vere, volti, frammenti di realtà. Una strada tutta sua che non somiglia né al documentario d’inchiesta alla Michael Moore, né al purismo e alla fredda registrazione fotografica della scuola francese da Jean Rouch a Raymond Depardon. Michael Moore? A domanda risponde: «Ha il merito di aver fatto vincere per la prima volta un film non fiction a un festival come Cannes, ma ha distrutto il documentario. Nelle sue mani è diventato entertainment, propaganda, giornalismo con tesi-antitesi-sintesi». La scuola francese?«è pura osservazione senza pathos. Non mi somiglia. Io sono più vicino a Ross McElwee (premiatissimo documentarista americano, ndr.), macchina in spalla in cerca della vita». Primi anni Novanta: per l’appunto con macchina e zaino in spalla il nostro Rosi parte per l’India. O meglio per la città sacra di Benares «unico luogo al mondo in cui i morti e i vivi dividono gli stessi spazi». Lì, dove il Gange accoglie tra le sue onde le immersioni dei fedeli, le ceneri dei defunti, i cadaveri dei poveracci e turisti che risalgono il fiume sulle barche a fotografare le pire di chi può permettersi una cremazione mentre gli altri galeggiano putrefatti nelle stesse sacre acque delle abluzioni. Come si fa a documentare tutto questo? «Buttando il materiale girato in una giornata e arrivando alla conclusione che per raccontare ciò che si è vissuto ci vuole tempo, lavoro, tornare e ritornare sul luogo del delitto, lasciarsi guidare dagli incontri, dai volti, dai racconti, dal caso. E poi costruire, decostruire e ricostruire con pazienza. Per distillare e restituire la verità di una sensazione». Come in letteratura, pittura, poesia.
Al cinema però la strada è più lunga. Tra un film e l’altro di Rosi passano anni. 1993: "Boatman", il barcarolo-Caronte indiano che traghetta Rosi nella città dei morti. 2008: "Below Sea Level" storia e storie di h omeless, rifugiati nei caravan nel deserto di California. 2010: "Sicario- room 164", confessioni di un vero killer del narcotraffico girato in una stanza d’albergo, dove nessun raccapricciante particolare è risparmiato all’ascoltatore. Nel mezzo una pioggia di premi e riconoscimenti nelle sezioni collaterali dei festival, una fama crescente tra gli addetti ai lavori, l’acquisto delle opere da parte di canali tematici e pay tv, pochi approdi nelle sale, molti gli applausi dei critici. Marco Muller soprattutto suo convinto sostenitore. Rosi lo inseguì letteralmente ai tempi di "Boatman".
Lo arpionò alla fine di una conferenza a New York. Si presentò e gli disse che aveva un film adatto al suo festival (Locarno al tempo). Muller si fidò nacque un sodalizio. è il metodo Rosi. Uomo gentile, socievole, accogliente. Ispira fiducia. Si lascia guidare dall’istinto, osserva gli uomini, sospende il giudizio, trova il punto di contatto tanto con il killer messicano che con l’anguillaro romano. Sa farsi accettare dalle persone e dalle comunità, con o senza la macchina da presa. E offre in cambio la cosa più preziosa: il suo tempo. Il "Sacro Gra" a differenza degli altri è l’unico film che arriva dall’esterno. Nasce da un’idea originale di Nicolò Bassetti, paesaggista e urbanista che per motivi di studi percorse a piedi l’intero raccordo anulare, quel cerchio di asfalto che strozza Roma di cui Bassetti voleva ricostruire storia e identità attraverso un saggio, una mostra, un sito e un film. Fu il produttore francese a pensare a Rosi e fu l’ex moglie di Rosi a convincere il nostro, riluttante, ad accettare per la prima volta in vita sua un film su commissione. Anche se subito si capì che di commissione ne sarebbe rimasta poca e che Rosi avrebbe da solo indagato, cercato, scavato, scolpito il suo film. Otto mesi di scouting. Una scoperta continua di personaggi di cui ne resteranno sette e poco più.
Un viaggio in macchina lungo il Gra con Renato Nicolini che dipinge con le parole «quel luogo senza storia che introietta piani temporali futuri, così come Roma fa con quelli passati, annullando il tempo. In entrambi i casi siamo nella città eterna». «Le mura invisibili che chiudono la città contemporanea come le mure aureliane chiudevano quella antica». «Un luogo infinito che si può percorrere all’infinito come ogni cerchio». In macchina Nicolini parla con la l eggerezza del saggio. Rosi lo filma. Pensa di farne il filo conduttore del racconto. Purtroppo la morte del suo protagonista arriva prima dell’inizio del film e di quel giorno restano un prezioso cortometraggio e la volontà del regista di far tesoro della lezione. «Svuotare, decostruire... lasciare spazio ai personaggi... aprire il cerchio e trasformarlo in una retta infinita» .
Ci son voluti tre anni. Sessanta chilometri di raccordo. Duecento ore di girato di cui trenta solo con i personaggi. Un palmologo, un barelliere, un principe, un nobile piemontese, un attore di fotoromanzi, un anguillaro. E prima di loro vent’anni di film e di determinata ricerca sul linguaggio. C’è voluto un presidente di giuria come Bernardo Bertolucci che in questo film ha visto il futuro di un cinema che non separa più fiction e non fiction. C’è voluto questo luogo-non luogo che nelle parole di Fellini circonda Roma come un anello di Saturno. C’è voluto un cineasta dalle molte cittadinanze che si chiama Rosi. Insomma c’è voluto tutto questo, perché il Leone d’Oro tornasse dopo 15 anni nelle mani di un regista italia no.