Daniela Cavini, Sette 20/9/2013, 20 settembre 2013
UN COLPO BASSO DEL DESTINO E DOMINIQUE LAPIERRE HA PERSO LE SUE DOTI: LA PAROLA E LA SCRITTURA. GLI RESTA IL DONO DI AIUTARE MILIONI DI INDIANI
UN COLPO BASSO DEL DESTINO E DOMINIQUE LAPIERRE HA PERSO LE SUE DOTI: LA PAROLA E LA SCRITTURA. GLI RESTA IL DONO DI AIUTARE MILIONI DI INDIANI –
«Se non c’è la strada, falla». A 82 anni, Dominique Lapierre, il grande scrittore, il romanziere da 20 – o chissà quanti – milioni di copie, oggi si batte per tornare a scrivere. La mano che ha ricostruito le battaglie per la libertà di interi popoli, che ha stretto le dita di Charles De Gaulle e Hussein di Giordania, di Golda Meir e Indira Gandhi, la mano che ha strappato ai marciapiedi indiani decine di migliaia di bambini, regalando loro una nuova vita, oggi si avventura su un faticoso percorso di vocali e consonanti. «Tatoo… Tatoo dove sei?». Il silenzio della casa di Ramatuelle è rotto dal grido di Dominique in costante ricerca della moglie, la donna che gli ha dedicato 47 anni di vita (e porta lo stesso nome, Dominique). Confinato nella calda e selvaggia campagna provenzale, fra esercizi di riabilitazione e ininterrotto bisogno di riposo, oggi Lapierre lotta per riannodare i fili di un discorso spezzato da una brutta caduta.
Lontano è il clamore dell’India raccontata nel suo libro più famoso, La città della gioia. Ma non c’è giorno che lo scrittore non accenni alle scuole e agli ospedali da finanziare, i budget da ispezionare, i convegni per svegliare le coscienze, l’ansia di raccogliere fondi. Quella vita è sospesa: non dimenticata, certo non perduta. Solo in attesa, lì, da qualche parte nella coscienza di un guerriero che mai si è arreso, mai fermato. Un uomo sempre affamato di vita, e tormentato dal pensiero di non riuscire a terminare i mille progetti affollati su un orizzonte sempre pieno. Un giornalista scapestrato divenuto scrittore missionario, che si trova oggi immerso nella sfida più ardua: tornare se stesso. E tornare a combattere per i diseredati della terra cui ha dedicato gli ultimi trent’anni di carriera e di vita.
L’incidente. Lapierre cade accidentalmente il 10 giugno 2012. Sta passeggiando nel villaggio di Ramatuelle per comprare i giornali, proprio dopo aver votato per le legislative: una salita difficile, un malore. Batte la testa, perde coscienza. I soccorsi sono immediati, non c’è emorragia cerebrale, non c’è paralisi. Ma un trauma cranico spegne il pensiero del letterato, che viene tenuto in coma artificiale. Appare subito chiaro a chi lo ha in cura che Dominique-Dada (grande fratello, come lo chiamano gli indiani) non è il tipo da lasciar accadere le cose senza battersi. «Se non c’è la strada, falla». Così, 32 giorni dopo riapre gli occhi; ci vorranno altri cinque mesi perché torni a parlare. Ma non molla. I medici raccomandano di stimolarlo, e dunque foto, immagini, video del passato vengono proposti al paziente, ricordandogli le mille tappe della sua stupefacente esistenza…
I suoi ricordi. Figlio di un diplomatico e di una giornalista, il piccolo Lapierre cresce a Parigi negli anni dell’occupazione tedesca. Rannicchiato sotto le coperte alla luce di una piccola lampada, Dominique scappa ogni sera dalla Francia invasa, divorando romanzi. Il suo preferito è La route aux aventures: Paris-Saigon en automobile, di Guy de Larigaudie e Roger Drapier: notte dopo notte, al volante di una Ford decappottabile, il ragazzino fugge la fame e il freddo di Parigi scorrazzando fra i minareti di Costantinopoli e Gerusalemme, bevendo il caffè amaro con i beduini di Palmyra, attraversando i deserti dell’Iraq, azzardandosi sugli altopiani afghani infestati di briganti, penetrando l’inferno della giungla birmana sulle tracce di tigri ed elefanti. È qui, in quest’inverno di guerra e razionamenti, che prende forma lo scrittore del futuro. «Larigaudie e Drapier divennero i miei maestri», scriverà più tardi, «e la loro mitica Ford la vettura dei sogni di libertà e infinito, che bruciavano inconsciamente dentro me. Il loro straordinario itinerario mi aveva indicato il sentiero…».
A fine guerra il padre è nominato console generale a New Or-leans, negli Usa: consegnando giornali a domicilio l’adolescente Dominique guadagna abbastanza da mettere le mani su una vecchia Nash cabriolet anni Trenta. Per finanziare il suo primo viaggio – la traversata della Louisiana – il ragazzo riempie il cofano di secchi di pittura e ridipinge cassette postali lungo la via… Fame di vita. Ma è già tempo di tornare in Francia. Nel ’48, a 17 anni, il liceale Lapierre vince una borsa di studio da 30 dollari messa in palio nell’ora di Storia e si lancia verso il Messico alla scoperta degli Aztechi: 30.000 chilometri dopo nasce un diario di viaggio Un dollaro, mille chilometri, pubblicato da Grasset, che sarà tradotto in 4 lingue. Da allora in poi, ogni occasione – compreso il viaggio di nozze con la prima moglie Aliette – è buona per mettersi al volante e macinare chilometri e storie. Libri e automobili, le grandi passioni di sempre.
Diventa giornalista per Paris Match e non c’è angolo caldo del pianeta, dall’Etiopia all’Iraq, in cui il giornalista non decida di immergersi. Nel ’56, in piena guerra fredda, riesce addirittura a ottenere il visto per attraversare l’Unione Sovietica con una Simca Marly: 13.000 chilometri racchiusi in un nuovo libro, C’era una volta l’Urss, che esce proprio mentre la Russia invade l’Ungheria. Ed è a bordo di una Rolls-Royce – comprata nel museo londinese di Frank Dale, e oggi pensionata nel parco auto di Ramatuelle – che il giornalista giramondo si ritrova a solcare l’India insieme al compagno di avventure e di scrittura, il fratello di penna, l’americano Larry Collins.
Quello con Collins è un sodalizio destinato a durare tutta la vita. Americano del Connecticut, laureato a Yale (e padrino di battesimo dell’unica figlia di Lapierre, Alexandra), Larry incontra Dominique durante il servizio militare presso il quartier generale Nato a Parigi. Entrambi diventano giornalisti, Collins per Newsweek, Lapierre per Paris Match. Amici nella vita, rivali sul lavoro. «Un giorno Larry mi chiuse a chiave in una camera d’albergo a Baghdad», ricorderà Lapierre, «per impedirmi di inviare al giornale le foto della rivoluzione irakena di cui era riuscito a ottenere l’esclusiva per Newsweek. Qualche tempo dopo mi vendicai ingannandolo sull’orario del treno che andava da Gibuti ad Addis Abeba, il che mi permise di essere uno degli ultimi giornalisti a intervistare il Negus d’Etiopia… Grazie a quei colpi bassi il nostro legame si rafforzò: quale sarebbe stata la nostra forza, se avessimo potuto unire i nostri talenti, invece di contrapporli?» (Mille Soli). L’idea si fa strada: portare avanti un’inchiesta e scrivere insieme, tradursi l’un l’altro. Un potenziale bacino di 300 milioni di lettori li aspetta, basta trovare un buon argomento… E l’argomento arriva.
Scrivere a quattro mani. Secondo alcune fonti, Hitler ordinò 14 volte al generale a capo di Parigi di annientare la città. Un ordine rinnovato quattordici volte che non viene eseguito. Perché? Cosa ha risparmiato la Ville Lumière? Ci vogliono quattro anni per portare alla luce i segreti di quella formidabile pagina di storia che vede 20mila soldati americani e 20mila francesi combattere gomito a gomito contro i 20mila tedeschi incaricati di difendere fino alla morte l’ultima capitale ancora in mano al Führer, nella fatale estate del ’44. Nasce così nel 1964 il primo di una serie di successi mondiali, Parigi brucia?, cinque milioni di copie vendute, un kolossal prodotto due anni dopo con Alain Delon e Yves Montand. Lapierre fa ampliare la casa in Provenza, dove i due avevano scritto il libro. Collins compra un terreno vicino. A metà strada, un campo da tennis, dove vengono risolti i diverbi letterari.
Nel 1967, Lapierre e Collins escono dall’inchiesta storica ed entrano in Spagna per indagare sul mondo della corrida e sulla vita del grande matador El Cordobes: nasce Alle cinque della sera. Nel 1971, il duo dipinge un grandioso affresco sulla creazione di Israele, Gerusalemme, Gerusalemme. È poi la volta dell’incontro con l’India, un Paese destinato a cambiare profondamente il destino di Lapierre. Insieme a Collins, raccoglie 4.000 cartelle di interviste sull’indipendenza indiana, quintali di documenti che confluiscono nelle 567 pagine di Stanotte la libertà, forse il racconto più avvincente sulla costruzione della grande nazione. Collins e Lapierre riescono addirittura a trovare gli uomini che nel ’48 uccisero il mahatma Gandhi, li riportano sul luogo dell’assassinio e lo ricostruiscono (davanti a una telecamera). Il libro ha un immenso successo, arrivano altri premi, traduzioni, soldi.
Ma qualcosa sta lentamente cambiando nel giornalista affamato di storie: potrebbe godersi la bella vita, invece il tarlo dell’India lo tormenta, è come stregato dalla follia del Paese da 20 milioni di dei, dove vita e morte, ricchezza e povertà si intrecciano in un’eterna danza struggente. Dove milioni di uomini nascono, crescono, si riproducono e muoiono sui marciapiedi. «Varcata la soglia dei 50 anni, avevo iniziato a capire che non era sufficiente scrivere bestseller in cui denunciare le ingiustizie del mondo», dirà ne Gli ultimi saranno i primi, «dovevo diventare protagonista attivo, capace di cancellare sul campo almeno alcune di quelle ingiustizie».
Ma quella per bonifico bancario non è esattamente la solidarietà che ha in testa. Fame di vita. Lapierre torna a Calcutta con l’instancabile Dominique-Tatoo (nel frattempo divenuta sua seconda moglie), si porta dietro un mucchio di dollari, senza sapere da dove iniziare a spenderli. Va da Madre Teresa e lei gli presenta James Stevens, un ex businessman inglese, convertito in pescatore di bimbi lebbrosi nei bassofondi di Calcutta. James ha fondato Udayan, una “Casa della Resurrezione” (in hindi), un’oasi di pace dove ai figli intoccabili degli ultimi della terra viene offerta una seconda opportunità. Ma dopo 10 anni Udayan è sul punto di chiudere per debiti. Lapierre gli consegna il denaro. «Ci batteremo insieme: adesso andiamo a prendere qualche altro bambino, ce ne sono troppi, là fuori…».
Calcutta nel destino. Ancora non lo sa, ma mettendo quel mucchio di dollari sul tavolo, Dominique Lapierre sceglie di consacrare genio e furore a una missione impossibile: riempire un oceano a forza di gocce. Interrotto il legame letterario con Collins, lo scrittore decide di addentrarsi da solo nel formicaio impazzito di una bidonville indiana per raccontare l’anonima battaglia quotidiana dei suoi 70.000 eroi. Lapierre rimane due anni nei vicoli della baraccopoli, condividendone i riti, le tragedie, le magie. Sedotto dalla dignità dei diseredati di Calcutta. Nel 1984 esce La città della gioia, una saga tradotta in 30 lingue che fa vibrare il mondo e schizza rapidamente in testa alle classifiche dei bestseller. Lo scrittore riceve oltre 200.000 lettere di sostegno. Anche Hollywood si fa travolgere dall’eccitazione, nasce una megaproduzione targata Roland Joffè (Mission, Urla del silenzio) con Patrick Swayze nel ruolo principale. Il film moltiplica le donazioni. Lapierre tiene fede alla parola data: ancora qualche bambino, ce ne sono troppi, là fuori. I copiosi diritti d’autore scorrono verso i primi ambulatori nelle zone più sperdute del Bengala rurale. Nascono le prime scuole, i centri di riabilitazione. Lapierre è come bruciato da una febbre, si lancia in un continuo giro di conferenze, crea una rete di sostenitori di ogni età, Paese, classe sociale. Crea l’Onlus “Associazione per i bambini dei lebbrosi di Calcutta”. Sconfigge di slancio un tumore alla prostata. Vende a Cristina Mondadori la bella villa di Ramatuelle, e si ritira nella dépendance di La Bastide, poco lontano. Continua a rispondere in maniera crescente ai crescenti bisogni degli ultimi fra gli ultimi. Bisogni che la ricchezza della potenza indiana – in piena espansione – non sembra considerare prioritari. «Ancora qualche bambino, ancora uno…»: in trent’anni, i coniugi Lapierre costruiscono decine di scuole, alfabetizzano le donne di tremila villaggi, distribuiscono quasi 5 milioni di euro in microcrediti, fanno scavare 650 pozzi d’acqua potabile, mettono in acqua 4 battelli-ospedale destinati alle popolazioni delle 54 isole del delta del Gange.
«È la catena d’amore iniziata dall’India che ha fatto il miracolo», afferma oggi Dominique, moglie al capezzale del marito, «in questi mesi siamo stati circondati, sostenuti dall’amore che, una volta messo in circolo, torna sempre. E Dominique ce l’ha fatta». All’ospedale infatti le cose migliorano: Lapierre può tornare a casa il 6 marzo. Varcando la soglia della Bastide, ritrovando il caos di carta, libri, giornali di cui si nutre quotidianamente, il romanziere riconosce l’io perduto: «La scrittura è tutta la mia vita», sussurra. Ma la consapevolezza va e viene, a tratti. Sono lampi in cui passato e presente si connettono e Dominique esce dalla nebbia che ha avvolto il suo ingegno, senza riuscire a spegnerlo. E sono i momenti più dolorosi, quelli in cui lo scrittore prende coscienza. «Ho voglia di piangere», ha detto alla moglie qualche giorno fa, «perché non ho fatto nulla di positivo oggi…».
Il lento recupero. Prigioniero di un riposo forzato, l’instancabile pellegrino deve accettare i cambiamenti che per tutta la vita aveva evitato. Fino allo scorso anno, i coniugi Lapierre si recavano personalmente in India almeno una volta all’anno per verificare i conti di scuole e ospedali, controllare i budget. Essere sicuri che ogni euro fosse speso là dove era destinato. La coppia ha sempre rifiutato lo “spreco” di qualsiasi costo di gestione: ma adesso? A gennaio il gruppo dei sostenitori storici di Lapierre – tutti volontari – ha tenuto una sorta di consiglio di amministrazione straordinario, affrontando il problema dell’assenza di controlli sul campo e identificando un capo area indiano, un uomo il cui compito è quello di supervisionare la gestione dei fondi a Calcutta e dintorni. Una missione non facile, soprattutto in tempo di crisi. Già a fine 2011 i Lapierre avevano lanciato l’s.o.s., annunciando che donazioni e diritti d’autore non riuscivano più a coprire il budget annuale e che erano costretti a tagliare gli aiuti del 20%. «Dovrò chiudere alcune scuole, e disarmare uno dei 4 battelli-ospedale», aveva reso noto Dominique a Calcutta in occasione del suo ottantesimo compleanno. Era quello il giorno che aveva sempre temuto potesse arrivare. E oggi non solo la crisi inaridisce i portafogli dei lettori, ma lo scrittore non può più sottoporsi all’estenuante giro di conferenze per raccolta fondi che da vent’anni sono un importante polmone finanziario per la Fondazione. «Sono sicura che ce la farà, che tornerà a parlare in pubblico», dice la moglie, «magari l’anno prossimo, o nel 2015».
Intanto, alla Bastide, Lapierre continua gli esercizi, stringe la penna, abbozza una parola, si stanca, si arrabbia. «Tatoo… Tatoo dove sei?». Non si arrende Dominique-Dada, non l’ha mai fatto. In quest’ennesima battaglia, forse la più difficile, gli sono accanto in tanti, è un’onda ininterrotta d’affetto che lo avvolge, lo solleva. Gli ricorda che, dopo averla raccontata, il suo nome è entrato nella Storia. Ma il Nobel – per la letteratura o per la pace, poco importa – non è mai stato l’obiettivo: «Andiamo a prendere qualche altro bambino, ce ne sono troppi, là fuori…». Oggi come non mai, per tenere in piedi la grande famiglia indiana, gli ci vorrebbe qualcuno abbastanza folle da prendere tutto in mano senza chiedere niente, da continuare a riempire l’oceano a forza di gocce. Qualcuno che leggendo la Route aux aventures di Larigaudie e Drapier, si innamori di una frase che può cambiare la vita: «Se non c’è la strada, falla».