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 2013  settembre 20 Venerdì calendario

C’ERA UNA VOLTA L’INTER DEI MORATTI. FINISCE UN’EPOCA (MA RESTA IL CUORE)

«Finisce un’epoca» è una frase ovvia, probabilmente inutile. Sono finite troppe epoche per riuscire a rimpiangerle con un minimo di senno. L’Inter diventa indonesiana. E tant’è. Verrà il giorno in cui il Duomo diventerà canadese e la Nutella pachistana. È la globalizzazione, bellezza. Volente o nolente il popolo neroazzurro si abituerà al sorriso così asiatico del signor magnate Erick Thohir, forse la curva prima o poi riuscirà persino ad acclamarlo. Le vittorie, si sa, nel calcio fanno perdere la memoria e le lacrime per il tempo che fu diventano subito lacrime di coccodrillo. Tutto vero, ma per il momento fateci recitare la canzone petrarchesca preferita dai nostalgici bauscia: «Sarti, Burgnich, Facchetti, Tagnin, Guarnieri, Picchi, Jair, Mazzola, Peirò, Suarez, Corso». O a scelta: «Julio Cesar, Maicon, Lucio, Samuel, Zanetti, Cambiasso, Thiago Motta, Sneijder, Pandev, Eto, Milito» con le sue varianti. Già, bella forza: erano tutti (o quasi) stranieri, compreso l’allenatore! È vero, ma nessuno può negare che c’era Moratti, l’italiano più milanese che si sia mai visto (e soprattutto sentito). Il massimo dei Massimi, il presidente romantico con quella faccia da italiano per niente allegro, anzi sempre alquanto perplesso. E per di più fu Angelo. Come dire una tradizione familiare a garanzia perpetua di fedeltà alla causa. E adesso: un cognome con troppe acca.
A pensarci bene, tutto era iscritto nel nome: «Nomina sunt consequentia rerum», diceva quel tale. Il nome è un destino. Dunque se Internazionale deve essere, che internazionale sia anche il suo proprietario. Niente da fare, non è così semplice. Internazionale voleva essere in origine solo un progetto ideale: mica quel nome andava preso così sul serio! «L’Inter agli interisti» urlavano i tifosi negli ultimi tempi, per scongiurare il passaggio in mani straniere. Ma anche questo è uno slogan del passato: c’era un tempo in cui interisti, milanisti, juventini, genoani, si nasceva. Impossibile diventarlo: oggi invece il simbolo del nuovo calcio è Ibrahimovic, che ieri ha esultato con l’Inter, l’altro ieri con la Juve, l’anno dopo con il Milan, eccetera. È finita un’epoca: che il dio dei bauscia ce la mandi buona. E che il Massimo dei presidenti, se può, resti a dare buoni consigli: non necessariamente tecnici, ma con il cuore.
Paolo Di Stefano