Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 20/09/2013, 20 settembre 2013
L’ESATTORE TRA GABELLE E TENTAZIONI
Bisogna conoscere «u camejuzzu i focu», bruciato ancora oggi nelle piazze di Calabria, per capire quanto l’odio per la figura dell’esattore
delle tasse si sia conficcato nella carne stessa di tanti italiani. Ben prima d’essere riacceso dalle inchieste come quella di ieri su certe mele marce dentro Equitalia.
Risale probabilmente al XIII secolo, come spiega nel saggio «Il cammello di fuoco» Margherita Geniale, l’origine del rito. «Il "camiddu" rappresenterebbe l’odiata figura del notabile saraceno che riscuoteva i tributi peregrinando di casale in casale sulla sua cavalcatura». Vero? Falso? Va a saperlo... Quel che è certo è che i tassati, nel nostro paese, hanno avuto storicamente un rapporto difficile con il fisco.
Colpa della protervia dei gabellieri medievali, che non seguivano la raccomandazione di Svetonio: «Il buon pastore deve tosare le pecore, non scorticarle». Colpa del rapporto difficile coi rappresentanti dello Stato che per secoli era spesso uno Stato occupatore, come nel caso del Regno Italico napoleonico il cui ministro delle finanze Giuseppe Prina fu travolto da una rivolta e sotto gli occhi di Alessandro Manzoni, narra Indro Montanelli, finì nelle mani di inferociti ribelli «no-tax» che «lo sottoposero a un coscienzioso linciaggio strappandogli occhi, denti e lingua». Colpa di errori imperdonabili del processo risorgimentale. Basti ricordare quanto scrisse l’ufficiale dei carabinieri (settentrionale) Enrico Pani Rossi sulla occupazione delle Calabrie: «Lungo i cinque anni della Liberazione si triplicarono addirittura le imposte, ma la terra non triplicò i suoi frutti e il suo valore...»
Certo è che anche gli esattori, in questa difficoltà di rapporti che si è ora drammaticamente accentuata, ci hanno messo del loro. Non vale, sia chiaro, per la grande maggioranza degli impiegati coscienziosi, integerrimi, consapevoli, che in nome di Equitalia cercano di fare il loro dovere, scomodissimo, nel modo più corretto e più sobrio. E che hanno ragione a denunciare certe campagne aggressive nei loro confronti che hanno portato a «400 atti intimidatori nei confronti di noi dipendenti della riscossione» come il vergognoso sequestro nel vicentino di un esattore preso in ostaggio da allevatori inveleniti per una multa legata alle quote latte.
Ma è vero anche che, talvolta, quel ruolo delicatissimo è stato esercitato senza il rispetto dovuto al «moroso» e con un’ottusità burocratica così meccanica e feroce da spingere le vittime a vivere le cartelle esattoriali come crudeli persecuzioni. «Il Giornale» è arrivato a titolare mesi fa: «Le 130 vite spezzate dalle tasse / mentre lo Stato resta a guardare». Sarà stata una forzatura politica, ma certo ci sono tragedie e lettere d’addio che devono fare riflettere.
Non è dunque un caso che ieri il web, arrivata la notizia delle perquisizioni a tappeto e delle indagini sulle mele marce dentro la società pubblica (51% Agenzia delle Entrate, 49% Inps) incaricata della riscossione dei tributi, ospitasse commenti velenosi. Del genere: e poi fanno le pulci a noi... Più o meno gli stessi apparsi dopo l’inchiesta, l’anno scorso, sul presidente della Camera di Commercio di Rimini Manlio Maggioli che tra i suoi business aveva una società di riscossione, la Maggioli Tributi, fondata per dar la caccia agli evasori, ma fu chiamato a spiegare come mai avesse nascosto lui stesso al fisco un paio di milioni di euro.
Per non dire del caso di un esattore siciliano della «Montepaschi—Serit» licenziato qualche anno fa perché accusato, e la cosa fu confermata anche in Cassazione, di approfittare del suo lavoro per fare il cascamorto «ogni volta che gli si presentava l’occasione». O del più celebre Giuseppe Saggese, indagato addirittura da 13 procure e arrestato nell’ottobre 2012 dopo essere diventato immensamente ricco, secondo i magistrati, gestendo a modo suo le 184 esattorie e le 14 società partecipate che aveva aperto.
«Una vita vissuta alla grande», scrisse allora Giusi Fasano, «Con autista e guardia del corpo al seguito. Con un prelievo quotidiano da diecimila euro. Con orologi extralusso al polso e diamanti per la sorella comprati come investimento. Al porto il super motoscafo Azimut, in garage la Mercedes blindata da più di centomila euro. E poi feste su feste e le tasche sempre piene di contanti».
Tolti San Matteo che fino al passaggio di Gesù («Seguimi») faceva il suo mestiere a Cafarnao e lo sceriffo di Nottingham presa di mira da Robin Hood, però, gli esattori più famosi della storia, per noi italiani, restano Nino e Ignazio Salvo. Fatti arrestare da Giovanni Falcone per associazione di stampo mafioso.
I cugini di Salemi, dice la sentenza Andreotti, «erano organicamente inseriti nell’associazione mafiosa Cosa Nostra» e «il loro controllo del sistema esattoriale in Sicilia, sottoposto ad una particolare regolamentazione che prevedeva un aggio ampiamente superiore a quello praticato nel restante territorio nazionale e una "tolleranza" sui tempi di versamento di parte delle somme riscosse aveva loro assicurato la disponibilità di enormi importi di denaro, reinvestibili in altre attività. I Salvo conseguentemente erano riusciti a incidere profondamente sull’esito delle competizioni elettorali e sulle decisioni assunte in varie sedi istituzionali...»
Giravano su di loro, all’epoca, aneddoti irresistibili. Che avevano un grande yacht coi colori grigi della guardia di finanza... Che al matrimonio della figlia di Nino c’erano champagne a fiumi e ananas appesi agli alberi e aragoste vive nelle vasche... Certo non fecero una bella fine. Nino morì di cancro in una clinica di Bellinzona, Ignazio fu assassinato per ordine di Totò Riina, a quanto pare perché non era riuscito a garantire l’annullamento in Cassazione del maxiprocesso.
Certo è che il suo potere gli sarebbe in qualche modo sopravvissuto. Nella chiesa Regina Pacis di Palermo c’è infatti una targa che lo ricorda: «Dono di fede e d’amore, in perpetua benedizione e memoria di Ignazio Salvo». Quando fecero notare al parroco che forse non era il caso, rispose: «La vedova di Ignazio Salvo, Giuseppa Puma, è molto attiva in parrocchia, fa parte del gruppo dei Neocatecumenali. Alla chiesa ha fatto tante donazioni...»
Gian Antonio Stella