Marco Damilano, l’Espresso 20/9/2013, 20 settembre 2013
L’UOMO CHE NON VOLEVA FARSI RE
Ricorda il film "Amadeus"? Lì Mozart è un giocherellone, talento puro, ma al fondo poco interessante. Io mi sono sempre identificato nel rivale, in Antonio Salieri...». E non si capisce se voglia essere un riconoscimento per l’avversario Matteo Renzi o un sottile avvertimento (nella pellicola di Milos Forman del 1984 Salieri avvelena Mozart), ma anche in questa singolare ammissione, «sì, mi affascina Salieri con i suoi tormenti, la sua impossibilità di essere il numero uno», Gianni Cuperlo si conferma un politico atipico. Autoironico: ha chiamato per complimentarsi Davide Astolfi, l’autore del suo falso profilo twitter Kuperlo che conta quasi più followers dell’originale («Compagni, non vi nascondo la mia ansia da prestazione. Ho il terrore di essere il primo che fa perdere il congresso a D’Alema»). Con una sobria considerazione di sé: «Nessuno mi ritiene la reincarnazione di Machiavelli, neppure io». Quasi stupito di trovarsi in gara per la segreteria: « È un posto a tempo determinato». Uno che gira in Vespa e che in treno legge Maurizio De Giovanni e Nick Hornby. E che nei talk-show rifiuta lo scontro verbale. Non buca il video, infatti, e nei bar lo scambiano per Pippo Civati: «Una delle cose peggiori della Seconda Repubblica è il pauperismo del linguaggio. Leader mediocri che incendiano il bosco con le loro parole». Ogni riferimento alle battute renziane sul Berlusconi da asfaltare non sembra casuale. Forse uno snob. Di certo un anti-leader.
Al triestino Cuperlo, 52 anni, laurea al Dams di Bologna con tesi sulle comunicazioni di massa, sposato con una ex compagna della Fgci, una figlia ventenne che studia a Firenze, tocca un destino bizzarro. A 28 anni, da segretario della Federazione giovanile comunista, si trovava a Berlino Est il 4 novembre 1989, cinque giorni prima della caduta del Muro, nell’Alexanderplatz: «Fui tra gli ultimi a dover mostrare il passaporto per andare a Est».
E a lui spettò il doloroso compito di sciogliere l’organizzazione giovanile del Pci che era stata di Berlinguer, Occhetto, D’Alema. Oggi nel Pd vacilla un altro muro, la tradizione originata dal Pci e transitata per il Pds, i Ds, il Pd, i simboli che sulla copertina del suo libro "Basta zercar" finiscono in uno scatolone, perché, spiega Cuperlo, «la mia generazione è quella dei traslochi, decisi quasi sempre dagli altri». E l’ultimo segretario dei giovani comunisti rischia di essere l’ultimo candidato segreterio del Pd che ha avuto in tasca la tessera del Pci. Con scarsissime possibilità di vittoria. Il gentile, raffinato Cuperlo, assiste allo spettacolo delle folle che nell’Emilia rossa acclamano Renzi, insieme a due ex segretari, Piero Fassino e Walter Veltroni. Solo lui sembra resistere al Ciclone, superstite di una radice che dopo la sconfitta di Pier Luigi Bersani alle elezioni di febbraio sembra ridotta come l’Oak Street, la via della Quercia, di una pagina dell’amato scrittore texano Joe Lansdale: «Gli alberi sembravano ben curati, ma via via che ci si inoltrava le querce erano tutte contorte, e parecchie malate, con protuberanze annerite». È Cuperlo che deve salvare le querce post-comuniste dall’estinzione.
«Mi rendo conto della difficoltà. Ma se non mi fossi impegnato la mia discrezione si sarebbe trasformata in un atto di diserzione, in una fuga dalle responsabilità», spiega. Non una scelta personale: a spingerlo sono stati Massimo D’Alema, i suoi coetanei spaventati dalle truppe di occupazione renziane, e da ultimo Bersani. Eppure Cuperlo è stato un leader, prima di tanti altri. Segretario della Fgci nel 1988, «la voce spoglia da ogni tono enfatico e ingentilita da una latitanza di erre», lo presenta L’Unità, prima intervista con Fabrizio Rondolino, i due si ritroveranno dieci anni dopo a Palazzo Chigi nello staff di D’Alema insieme a Claudio Velardi. «Il primo anno pensai che dirigere la Fgci fosse un regalo magnifico: mi capitò di incontrare Nelson Mandela e Alexander Dubcek a Praga. Dopo l’89, invece, la tensione divenne insopportabile».
Il crollo del Muro travolge l’inquieta Fgci, dove il 90 per cento vorrebbe lasciare la parola comunista nel nome, e tormenta il giovane Cuperlo che nel Comitato centrale in cui Occhetto lancia il cambio del nome e del simbolo, socializza il suo dramma: «Nella nostra esperienza politica e umana, ancora breve, ci troviamo davanti domande più grandi di noi... Mi viene chiesto di cambiare? Sì, ma affinché il mio comunismo si faccia più forte, più elevato, più dirompente. Il bisogno di comunismo è la nostra pelle». Quando faticosamente aderisce alla svolta occhettiana, la sua Fgci si divide. E sulla pelle di Cuperlo restano cicatrici ancora oggi visibili. Il marchio del dirigente amletico, angosciato, dilaniato dai dubbi. «Mi proposero incarichi nella federazione di Milano e poi a Roma, ma rifiutai. Mi sentivo logorato», racconta. Il rigetto per la leadership, la ricerca di un ruolo più appartato, il sentimento di «coloro che non possono condurre ma devono essere condotti», come dice il papa dimissionario di Nanni Moretti, di cui Cuperlo è stato interlocutore per conto dei Ds nel 2002: un panino di chiarimento al Roof Garden di via Nazionale dopo l’urlo del regista in piazza Navona.
Una ritrosia al comando su cui ironizza chi sente ripetere da D’Alema che Cuperlo sarebbe il segretario ideale, «ha tutte le qualità per dirigere il Pd». Ma quando mai, sorride chi conosce bene entrambi, basta vedere il suo rapporto con il Capo, fondato sulla certezza che mai Cuperlo avrebbe dimostrato ambizioni in proprio. «Gianni scriveva decine di discorsi, articoli, appunti. Massimo non li usava mai, ma lo rassicuravano». «Quando D’Alema mi chiamò nello staff fu una sorpresa. È stato il punto di riferimento che nella mia formazione era mancato», sintetizza Cuperlo. Che anche negli anni del dalemismo rampante si muove su altri terreni. In pochi lo ricordano, ma fu sua l’idea (vincente) di scegliere come inno dell’Ulivo la "Canzone popolare" di Ivano Fossati nel 1996. Sua anche la scelta dello slogan del congresso Pds del 1997, quello dell’apogeo dalemiano, «Il futuro entra in noi molto prima che accada», una frase di Rainer Maria Rilke, peccato che il futuro di cui parlava il poeta fosse la morte, quando il superstizioso D’Alema lo scoprì non gli fece molto piacere.
Nel 2008 il non più giovane Cuperlo segnala la necessità di superare la foto di gruppo del Bottegone, i D’Alema e i Veltroni. Ora che insegue la segreteria il giudizio si fa più affilato: «La mia generazione è stata schiacciata dalla scarsa generosità dei fratelli maggiori e dalla famelica ambizione di quelli minori». E sul Pd di Bersani: «Abbiamo trasmesso poco il senso della rottura possibile e necessaria». Una replica a chi lo vede come un candidato perdente, residuale, crepuscolare, uno che nel manifesto programmatico (copertina color rosso) cita "Il club degli incorreggibili ottimisti" del francese Jean-Michel Guenassia, il racconto degli ultimi credenti nel comunismo, e Robert Musil, l’apologo del roditore che non sapendo chi è, se uno scoiattolo o un ghiro, ha paura della sua coda: «Non difendo i vecchi accampamenti. Non mi batto per un Pd più piccolo, più ortodosso. Il nostro patrimonio è ancora interamente spendibile». Parla di rivoluzione digitale, beni comuni, etica pubblica, «la questione morale ci riguarda», anche se poi sull’arresto dell’ex compagna di partito Rita Lorenzetti si raggomitola: «Sono un garantista. E le confermo la mia stima». Si prepara a una gara anche in tv contro Renzi di cui un anno fa condannava «il modello di una democrazia senza partiti dove la forza del capo soverchia tutto», il pericolo di «una visione reazionaria della politica». Oggi corregge il tiro: «Matteo è simpatico, intercetta una domanda potente di rinnovamento, la sua grande popolarità è un fatto positivo per il Pd. Ma non ha nessuna voglia di fare il segretario, punta a Palazzo Chigi. Io credo invece che se non ricostruiamo il partito nessuno sarà in grado di governare, neanche Obama ci è riuscito».
Cuperlo l’Anti-leader, il Salieri senza rancore che deve bloccare l’Amadeus di Firenze, è chiamato a salvare la Ditta post-comunista in un Pd egemonizzato dai Renzi, dai Letta e dai Franceschini. Alla guida, in caso di una sconfitta dignitosa, almeno il 30 per cento dei voti, della corrente di minoranza, la sinistra interna, come Pietro Ingrao o Fabio Mussi. O forse no. Di Renzi un anno fa disse: «Vuole smontare i muri portanti della casa». Ma se così dovesse essere non resterebbe che progettare un altro trasloco. E l’Anti-leader diventerebbe imprevedibilmente il numero uno. L’ultimo discendente della stirpe del Bottegone potrebbe essere il primo segretario. Di un nuovo partito di sinistra, dopo una scissione.