Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  settembre 20 Venerdì calendario

il premier d’europa me lo scelgo io. Con il voto di maggio non solo eleggeremo l’europarlamento, ma sceglieremo anche chi si batterà per la presidenza della commissione Ue

il premier d’europa me lo scelgo io. Con il voto di maggio non solo eleggeremo l’europarlamento, ma sceglieremo anche chi si batterà per la presidenza della commissione Ue. Ecco i candidati dei vari partiti– Il traguardo è lontano ancora mesi (si vota tra il 22 e il 25 maggio 2014), ma la volata è già stata lanciata. All’arrivo il trofeo è la poltrona di presidente della Commissione europea che per la prima volta, l’anno prossimo, verrà decisa anche dal Parlamento Ue, una novità, imposta dal Trattato di Lisbona, buona per iniettare un po’ di democrazia al club comunitario - finalmente il legislativo avrà voce in capitolo nella scelta del capo dell’esecutivo - e per provare a portare qualche altro elettore ai seggi, sempre più deserti quando si sceglie chi mandare a Strasburgo. I sondaggi, per la verità, non aiutano: astensionismo ed euroscetticismo sono dati in ulteriore ascesa, una marea di malcontento che rischia di rendere vuote, o amare, le urne delle prossime europee. In questo panorama desolato, un dato indica la rotta da seguire: il 60 per cento degli europei, assicura un Eurobarometro pubblicato a inizio settembre, prenderebbe più volentieri la scheda se con quella potesse eleggere anche il presidente della Commissione (e il nostro premier Enrico Letta si è fortemente espresso a favore di questa ipotesi). E quindi la soluzione per rendere più sexy le elezioni del 22-25 maggio 2014 brilla chiara all’orizzonte: legare l’elezione del nuovo Barroso a quella dei deputati per il Parlamento. Su questo il Trattato di Lisbona apre una finestra, dicendo che d’ora in avanti Strasburgo avrà voce in capitolo nella nomina del presidente della Commissione: non si parla di elezione diretta o di vincoli per i governi a dover accettare il nome indicato dagli eurodeputati in voto segreto, ma intanto si è aperta una porta in cui il Parlamento si è gettato a capofitto, cercando di scavarsi un ruolo il più determinante possibile. Il sogno è quello di spingere i cittadini del Vecchio Continente a partecipare alla battaglia per la testa dell’esecutivo comunitario creando così una vera e propria campagna elettorale europea invece di 28 campagne nazionali. Ogni candidato alla poltrona di Barroso, ha chiesto il Parlamento in una risoluzione approvata a inizio luglio, dovrà presentarsi con un programma chiaro, realizzare dei comizi in tutti gli Stati membri, in sostanza metterci la faccia da Lisbona a Vilnius, da Stoccolma ad Atene, anche se qui in diversi potrebbero rischiare il linciaggio. Ogni partito nazionale sarà chiamato a indicare la propria affiliazione alla famiglia dei partiti europei e le generalità di chi sostiene nella corsa alla presidenza della Commissione. In sostanza la croce sulla scheda in Italia e in Germania, in Irlanda e in Croazia sarà un voto non solo per un deputato da mandare a Strasburgo ma anche per un uomo o una donna da piazzare al 13esimo piano del Berlaymont, l’ufficio del capo dell’esecutivo. NESSUN ITALIANO Allo scoperto è già uscito Martin Schulz, l’uomo chiamato kapò da Berlusconi giusto dieci anni fa e che da allora, baciato dal Cavaliere, ha bruciato le tappe diventando il più attivo e intraprendente presidente della storia del Parlamento europeo. Ora il tedesco punta ancora più in alto, a prendere il posto di Barroso. Una gara che non vedrà italiani alla partenza: c’è già un certo Mario Draghi a capo della Banca centrale europea il che chiude di fatto la porta a un altro italiano ai vertici europei. Altro fattore, forse ancora più importante, è che non c’è un candidato forte, spendibile a livello comunitario, che venga dal Belpaese. L’unico italico che piace molto ai governi, ma un po’ meno al Parlamento, è Mario Monti, ma il Professore è vittima di se stesso e della sua vocazione super partes, di quella sua mania di non sporcarsi le mani con una sigla. «Ha flirtato con il Ppe, con i popolari, ma alla fine non ha scelto un partito e senza un partito dietro non si diventa più presidente della Commissione europea», racconta una fonte diplomatica. SCHULTZ, BARROSO, TUSK Chi invece un partito ce l’ha è appunto Schulz. «Personalmente non vedo un’alternativa reale a Schulz. Non dipende da un governo, non è sceso a patti con la Commissione, è un forte presidente del Parlamento, in sintesi è un ottimo candidato». Parola di Hannes Swoboda, capogruppo a Strasburgo per i Socialisti e Democratici. Schulz, già indicato dal suo partito, i tedeschi del Spd, attende l’investitura di tutto il Pse, che dovrebbe arrivare al congresso di febbraio. Prima, entro il 19 ottobre, dovrebbero presentarsi eventuali sfidanti interni. «È possibile che si presenti qualcuno di un grande Paese, come Francia o Spagna, ma si tratterebbe di candidature nate per legittimare Schulz non per batterlo», racconta una fonte socialista. In quest’ottica si è fatto il nome del francese Pascal Lamy, un peso massimo, ex commissario Ue e dal 2005 Segretario generale dell’Organizzazione mondiale del commercio. Nel centrodestra regna invece l’incertezza: i popolari, vincitori annunciati delle prossime elezioni, se la prendono comoda. Il primo a dover fare chiarezza è proprio José Manuel Barroso. Se decide di ripresentarsi, sarà lui il candidato, non senza rischi. «Al momento sono occupato al 100 per cento nelle mie funzioni e il mio futuro è una questione a cui non dedico nemmeno un secondo», ha affermato recentemente al settimanale portoghese "Expresso". A maggio aveva invece detto, alla rivista belga "Vif-Express", che «due mandati sono già abbastanza». Parole sibilline, non una chiara presa di distanza dalla corsa. Barroso valuta anche altre opzioni, tra cui diventare presidente del Consiglio della Ue, al posto del belga Van Rompuy, stesso stipendio (sui 25 mila euro al mese) per un lavoro meno faticoso che però offre anche meno visibilità. Dall’altro lato si tratta di una nomina, quella di presidente della Ue, che dipende esclusivamente dai governi e non anche dal Parlamento, un elemento da non sottovalutare per uno che esce con un’immagine logorata da 10 anni di vita politica a Bruxelles. «Se la battaglia per la Commissione sarà tra Barroso e Schulz, sono sicuro che molti popolari voteranno in segreto il tedesco, anche se socialista», spiega il verde Daniel Cohn-Bendit, vecchia volpe di Strasburgo. Altra carta pesante per i popolari è quella del polacco Donald Tusk. O, per meglio dire, era. Dopo aver tessuto non poche tele per arrivare a Bruxelles, recentemente Tusk ha affermato di voler concludere il suo mandato in patria, scadenza: 2015. Tattica e pretattica, cosciente del fatto che lanciandosi troppo presto nella volata si prende vento e c’è il rischio di bruciarsi, o scelta definitiva? Lo si capirà a ottobre quando i nomi dovranno uscire allo scoperto. Dietro scalpitano già due figure molto conosciute e apprezzate a Bruxelles: il francese Michel Barnier, attuale commissario al Mercato interno, e la sua collega lussemburghese Viviane Reding, dal lontano 1999 in Commissione, attualmente alla Giustizia, cittadinanza e diritti fondamentali. Capigliatura vistosa e pochi peli sulla lingua, come dimostrano le sue critiche, poi silenziate (da Barroso), a Sarkozy e Berlusconi, la Reding si è giovata dell’uscita di scena del suo connazionale Jean-Claude Juncker, impegnato a riconquistare l’esecutivo del Granducato dopo averlo dovuto abbandonare per lo scandalo delle intercettazioni illegali. Juncker sarebbe stato un candidato perfetto ma pare volersi limitare al giardino di casa. Piace molto, e non solo a destra, anche Barnier. «Se si presenta lo votano sicuro anche tra i liberali, d’altronde è uno che ha un’agenda ideale per i liberali», riassume sempre Cohn-Bendit. Per Barnier lo scoglio è di natura nazionale: potrebbe essere il candidato del Ppe ma non della Francia del socialista Hollande (che punta a mettere sul tavolo un tris di donne, tra cui l’ex moglie Ségolène Royal), un limite non da poco in questo nuovo sistema di selezione che mixa Parlamento Ue e governi nazionali. Stesso problema per una candidata apparsa all’orizzonte nell’ultimissima ora: Christine Lagarde. L’ex ministro delle Finanze francesi, attuale direttrice generale del Fmi, ha un curriculum di tutto rispetto, ed è anche donna, il che non guasta in una Commissione che spinge a fondo per le quota rosa in economia (meno in politica), ma non è il cavallo di Hollande e a dirla tutta ha anche altri problemi. Lagarde è infatti coinvolta nell’affaire Bernard Tapie-Crédit Lyonnais (un arbitrato da 403 milioni di euro pagati dallo Stato a favore dell’ex patron dell’adidas) ed è troppo sarkozysta («Usami per il tempo che ti serve», gli ha scritto in una lettera in cui si proponeva come il suo zerbino). In sostanza dovrebbe sudare quattro camicie per convincere il Ppe: «In molti non la vedono di buon occhio», assicura un’alta fonte del partito. Altri nomi che circolano tra i popolari, quello del premier finlandese Jyrki Katainen, della presidente lituana Dalia Grybauskaite e del capo del governo lettone Valdis Dombrovskis (giovane, dell’Est e uomo di tanta fede: ha appena portato il Paese nell’euro), gente che non riempie gli stadi e che è molto malleabile, caratteristica apprezzata dalle capitali che comandano, Berlino in testa. OUTSIDER DI LOTTA E DI GOVERNO Tra i liberali a giocarsela saranno l’ex premier belga Guy Verhofstadt, attuale capogruppo del partito a Strasburgo, e il commissario all’Economia Olli Rehn. Nessuno ha i numeri per vincere, ma potrebbero rientrare in gioco nel caso in cui il candidato popolare e quello socialista non arrivassero ad avere la maggioranza assoluta del Parlamento Ue. Perché se è vero che l’uomo del partito che vince le elezioni ha il diritto di provarci per primo, non è però detto che ce la faccia ad essere eletto, soprattutto in un’assemblea frammentata e piena di "antisistema", tra euroscettici di destra e di sinistra, come quella che si preannuncia per l’anno prossimo. Infine gli outsider da barricata. L’estrema sinistra non ha ancora scelto, sfogliando una margherita di volti tra cui quello di Alexis Tsipras, il greco capace di portare Syriza a un passo dal governo sfoderando una feroce critica alla troika e alla Commissione Ue. Non ha i numeri per diventarne il capo, ma sarebbe comunque curioso vederlo in corsa per il piano nobile del Berlaymont. Stesso discorso per la candidata dei verdi. Gli ecologisti hanno lanciato delle primarie via Internet a cui si presenteranno i candidati che hanno raccolto l’appoggio di almeno sette partiti nazionali (esistono 33 partiti verdi). Secondo Cohn-Bendit il più adatto a rappresentare gli ecologisti «sarebbe José Bové» l’attivista anti ogm. Sarà il popolo a decidere, on line, ma anche per il prescelto si tratta di una candidatura di facciata, buona per mobilitare l’elettorato e i simpatizzanti verdi, ma zero chance per la Commissione. IL POTERE DI BERLINO Se è Strasburgo a votare ed i governi a scegliere, è anche vero che il profilo del prossimo presidente della Commissione potrebbe essere deciso, come ultimamente accade sempre più spesso, solo a Berlino, dopo le elezioni del 22 settembre. «Schulz ha puntato tutte le sue fiche su una grande coalizione», assicura un diplomatico europeo. Il ragionamento è semplice: se Cdu e Spd vanno al governo a braccetto, allora Schulz può contare su un treno da favola per tirargli la volata: i socialisti, una fetta cospicua dei popolari, quelli di area tedesca e assimilati, e la benedizione di Frau Merkel, obbligatoria per chiunque aspiri a vincere in Europa. Ma se la Cdu dovesse allearsi con i liberali o con i verdi, allora «sarà difficile per Schulz», vaticina Swoboda. E non è un caso che per ora il governo tedesco sia il più tiepido nel dare troppo potere al Parlamento nella nomina del successore di Barroso: sta aspettando di vedere come andranno le elezioni, oltre a non voler rafforzare troppo l’istituzione comunitaria meno controllabile a distanza. Di questi tempi tutte le strade portano a Berlino, anche quelle che dovrebbero finire a Bruxelles passando per Strasburgo.