Stefano Livadiotti, l’Espresso 20/9/2013, 20 settembre 2013
Italia in Nero– L’ultimo blitz è scattato, come nella migliore tradizione, in piena estate, quando mezza italia è sotto l’ombrellone
Italia in Nero– L’ultimo blitz è scattato, come nella migliore tradizione, in piena estate, quando mezza italia è sotto l’ombrellone. Martedì 6 agosto due senatori del Popolo delle libertà, Cinzia Bonfrisco e Antonio D’Alì, hanno presentato un emendamento al cosiddetto decreto "del fare" per rialzare a 3.000 euro la soglia sull’utilizzo del denaro contante, che Mario Monti aveva fissato a quota mille. Il governo ha espresso parere contrario e la proposta è stata bocciata. Ma, c’è da scommetterci, l’argomento tornerà presto a far capolino nelle aule parlamentari, perché la massima libertà nell’uso del cash è un pallino di Silvio Berlusconi & Co. E una mano santa per il partito degli evasori fiscali più incalliti. A fare da apripista, il 2 luglio, era stato non a caso un altro esponente del Pdl: il sottosegretario allo Sviluppo Economico, Simona Vicari, molto cara al presidente dei senatori berlusconiani, Renato Schifani. «Così com’è oggi, la soglia rappresenta una camicia di forza ai cittadini e frena la ripresa e la crescita in tutti i settori», aveva cinguettato. Aggiungendo che la sua idea incontrava il favore del ministro, il Pd Flavio Zanonato (che pur essendo piuttosto loquace era rimasto muto come un pesce). Così aveva concluso la Vicari: «Bisogna rivedere la legge senza pregiudizi e furori ideologici (...) autorevoli studi e pubblicazioni dimostrano che sulla lotta al riciclaggio e all’evasione fiscale la riduzione della soglia di circolazione del contante non ha effetti decisivi». Quali tomi abbia compulsato la Vicari resta un mistero. Perché che il sommerso viva di nero e il nero si nutra di contante lo sanno anche i bambini. Tanto che un altolà era arrivato a stretto giro di posta dalla Corte dei Conti. La magistratura contabile aveva detto che il tetto all’uso del denaro liquido andava sì cambiato, ma per abbassarlo ulteriormente. «È intuibile come la gran parte delle transazioni che possono dar luogo all’occultamento dei ricavi si addensi al di sotto della soglia dei mille euro», si legge in una relazione presentata dieci giorni dopo dal presidente, Luigi Giampaolino. La battaglia sull’uso del contante (che oggi, paradossalmente, è esentasse, al contrario di assegni, cambiali e conti correnti, tutti colpiti da un bollo) non è cominciata ieri. Nel 2007, un anno dopo aver vinto le elezioni, Romano Prodi ha abbassato il tetto da 12.500 a 5.000 euro. E stabilito, con il decreto Bersani-Visco, un ulteriore décalage per i soli professionisti: la soglia sarebbe dovuta scendere a 1.000 euro nel luglio 2007, a 500 un anno dopo e addirittura a 100 euro (lo stesso limite oggi in vigore in Germania) nell’estate del 2009. Il piano è però rimasto sulla carta. Perché a palazzo Chigi è arrivato Silvio Berlusconi. E Giulio Tremonti, l’ex superministro dell’Economia che pagava in contanti la metà dell’affitto dell’appartamento romano al suo più stretto collaboratore (e coinquilino) Mario Milanese, lesto ha ripristinato il limite dei 12.500 euro (giugno 2008). Salvo poi essere costretto dalla crisi della finanza pubblica a dare, suo malgrado, un giro di vite nella lotta all’evasione fiscale, riportandolo a 5.000 (maggio 2010) e poi a 2.500 (agosto 2011). Quindi il Cavaliere ha dovuto passare la mano a Monti, che dopo aver accarezzato l’idea di scendere a 500, ha poi invece stabilito, con l’articolo 12 del decreto "Salva Italia" (dicembre 2011), la quota attuale di mille euro. UN TESORO INCALCOLABILE La partita è sempre aperta. Del resto, la posta in palio è un tesoro immenso: il sommerso. «Si tratta», come scrive con semplicità il tributarista e collaboratore del "Sole 24Ore" Ernesto Maria Ruffini nel suo "L’evasione spiegata a un evasore", «di tutte quelle attività economiche che non sono misurate dalle statistiche ufficiali: alcune intenzionalmente, come il volontariato o il lavoro domestico; altre perché nascoste, come le attività criminali o l’evasione fiscale». Quasi per definizione, quanto sia esattamente il sommerso è impossibile sapere. Il documento conclusivo del Gruppo di lavoro su economia non osservata e flussi finanziari, guidato dall’attuale ministro del Lavoro e delle politiche sociali, Enrico Giovannini, nel 2011 aveva stabilito per il valore aggiunto prodotto dall’area del sommerso economico una forchetta tra il 16,3 e il 17,5 per cento del prodotto interno lordo. In soldoni, tra i 255 e i 275 miliardi di euro (dato 2008), ben nascosti nei fatturati dell’agricoltura (32,8 per cento del totale), del terziario (20,9 per cento) e dell’industria (12,4). I numeri di Giovannini coincidono con quelli di un rapporto dell’ufficio studi della Confcommercio ancora fresco di stampa, essendo datato luglio 2013. Nel documento si parla di un sommerso pari al 17,4 per cento, che su un Pil stimato per il 2013 a 1.563 miliardi di euro fa 272 miliardi. Ma il professor Friedrich Schneider dell’Università di Linz, guru mondiale della materia, che misura l’economia sommersa osservando proprio l’utilizzo del denaro contante, ha diviso gli Stati dell’Ocse in tre gruppi. Mettendo l’Italia, insieme a tutti i Paesi mediterranei e al Belgio, in quello dove ciò che non risulta dalle statistiche sta tra il 20 e il 30 per cento. Saremmo insomma come minimo al di sopra dei 300 miliardi, come del resto avvalorano stime basate su dati Eurosat, che parlano di 330 miliardi. E che a loro volta non si discostano da quelle dell’istituto di geopolitica texano Stratfor Global Intelligence: gli analisti guidati dal politologo George Friedman indicano una forchetta tra il 17 e il 21 per cento del Pil, cioè tra i 270 i 340 miliardi (dati 2012). Ma c’è chi va ancora oltre. È il caso di uno studio del 2012 targato Eurispes ("L’Italia in nero-riflessioni sull’economia sommersa"), che si spinge a ipotizzare un nero pari a quasi 530 miliardi. Una cifra che si avvicina a quella (575 miliardi) del totale delle venti manovre economiche varate negli ultimi dodici anni dai governi di turno. In ogni caso, chiunque abbia ragione sui conti, si tratta di una situazione del tutto fuori controllo, se solo si pensa che il fenomeno è valutato al 6,7 per cento in Gran Bretagna, al 5,3 negli Stati Uniti, al 3,9 in Francia e addirittura allo 0,3 in Norvegia. Ed è a causa del sommerso che la pressione fiscale effettiva, quella cioè che grava sui contribuenti onesti, è arrivata al 54 per cento, quasi dieci punti più in alto di quella teorica (44,6 per cento). ALLO SPORTELLO 343 MILIARDI Le cifre in discussione sono dunque tali da far apparire ridicolo il balletto in corso sulla manciata di miliardi (quattro) che il governo dovrebbe racimolare per tagliare l’Imu. Il recupero (almeno in parte) del malloppo nascosto è però possibile solo se si mette un freno alla circolazione delle banconote, obbligando da un lato, e incoraggiando dall’altro, chi acquista beni e servizi a utilizzare strumenti di pagamento tracciabili. Scrive Schneider in "The shadow economy in Europe" (2013) che la rilevanza dell’economia sommersa sul prodotto interno lordo degli Stati dell’Unione europea diminuisce all’aumentare del numero di transazioni effettuate tramite carte di pagamento. Il che è certamente vero. Come lo è anche che il sommerso aumenta quando circolano più banconote. «Grecia e Italia sono i Paesi europei che mostrano i prelievi di contanti di importo medio più elevato (rispettivamente 250 e 175 euro) e contestualmente», nota su lavoce.info l’economista del Centro Europa Ricerche Carlo Milani, «hanno la più alta incidenza dell’economia sommersa sul Pil». Ma sul fronte dei sistemi di pagamento l’Italia ha accumulato un ritardo drammatico. Un paper della Banca d’Italia, datato novembre 2012 e intitolato "Il costo sociale degli strumenti di pagamento", dice che da noi il contante viene usato nell’82,7 per cento delle transazioni, contro una media dell’Europa a 27 del 66,6 cento. Il ricorso alla carta di pagamento è fermo a quota 6,4 per cento (contro il 13,2 dell’Europa a 27). Anche perché da noi di carte ce ne sono di meno: 1,2 per abitante, secondo un report di Datamonitor, contro la media Ue di 1,5, che nasconde picchi di 2,4 in Gran Bretagna e di 1,8 in Olanda e Belgio. Risultato: secondo i dati dell’Istituto per la competitività nel 2011 in Italia sono stati effettuati pagamenti con carte di credito o di debito (il Bancomat) per 122 miliardi, pari all’8 per cento del Pil. In Francia la cifra raggiunge i 393 miliardi (19,6 per cento del Pil) e in Gran Bretagna i 578 miliardi (33,1 per cento). Un po’ di italiani tiene pure la carta in tasca, ma al momento di pagare il conto preferisce tirare fuori denaro frusciante, magari su richiesta dell’esercente: i calcoli della Bce dicono che il 31 per cento dei compratori estrae un fascio di banconote anche quando deve regolare conti per importi compresi tra 200 e 1.000 euro. Se poi lo scontrino (quando c’è) è sotto i 50 euro, a pagare in contanti è il 98 per cento degli italiani, percentuale che scende solo al 93 quando la cifra è compresa tra i 50 e i 100 euro (Rapporto Ipsos, giugno 2012). Secondo i calcoli di Bank for International Settlements, nel 2008 in Italia le operazione pro capite con carta erano ferme a quota 24,5, contro una media per l’area euro di 57 e un picco di 124,5 per la Gran Bretagna (gli Stati Uniti erano a 191,1). Poi la situazione è migliorata, ma non il divario con i grandi paesi. Nel 2011, dice la Guardia di Finanza, l’Italia era salita a 68 operazioni cashless pro capite, ma nel frattempo l’area euro era arrivata a quota 182, la Francia a 255, la Gran Bretagna a 257 e l’Olanda addirittura sopra le 300. Lo stesso vale per i Bancomat, utilizzati molto più per prelevare contante (oltre 160 miliardi nel 2012) che per pagare i negozianti (le operazioni sui Pos, i terminali elettronici, risultano ferme a 73 miliardi). Si legge nel rapporto annuale dell’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia che nel 2011 il totale di prelievi e versamenti è ammontato a 343.356 milioni di euro. QUINDICI MILIARDI DI BIGLIETTI Se non fossimo in un Paese che ha un’evasione fiscale da Guinness dei primati e che risulta al venticinquesimo posto su 26 (preceduto da Messico, Slovenia e Grecia) nella classifica sulla diffusione di pagamenti irregolari e tangenti elaborata dalla Confcommercio su dati del World Economic Forum e della Banca mondiale, l’uso della moneta elettronica converrebbe a tutti. In primo luogo perché, anche se pochi ne sono consapevoli, il contante ha un costo sociale (cioè per il sistema economico nel suo complesso) molto elevato. Bisogna infatti produrlo, trasferirlo in sicurezza e custodirlo: e non è proprio uno scherzo, se la Guardia di Finanza ha calcolato che nel 2011 circolavano sul territorio nazionale 15 miliardi di banconote, per un controvalore di 870 miliardi di euro. Secondo la Bce per il denaro l’Europa a 27 spende lo 0,46 del suo prodotto interno lordo, pari a 60 miliardi. E l’Italia, dove i biglietti di banca sono più diffusi che altrove, per palazzo Koch sborsa da sola 8 miliardi (10 in base al rapporto 2011 di Cap Gemini), lo 0,52 per cento del Pil (contro una media europea dello 0,40). Che vuol dire 133 euro pro capite (senza prendere in considerazione le rapine subite dai privati). La moneta elettronica invece, rendendo il circuito economico più efficiente, aiuta la crescita. Uno studio del 2013 di Moody’s Analytics sostiene che le carte di pagamento hanno generato a livello mondiale una maggior crescita di 983 miliardi di dollari e due milioni di posti di lavoro tra il 2008 e il 2012, dando una spinta dello 0,3 per cento alle economie mature e dello 0,8 per cento a quelle in via di sviluppo. Restando alla sola Italia, l’Istituto per la competitività, elaborando i dati di Eurostat, della Bce e del professor Schneider, ha calcolato che se ogni italiano riducesse di 15 euro i prelievi medi che effettua al Bancomat ci sarebbe una diminuzione dell’economia sommersa in grado di garantire un maggior gettito di 9,8 miliardi. E che se ci fossero in circolazione dieci milioni di carte in più (incremento inferiore a quello registrato tra il 2006 e il 2011) si avrebbe un calo del sommerso tale da far incassare al fisco 5 miliardi in più. Il combinato disposto dei due fattori darebbe insomma quasi quattro volte la somma necessaria a sopprimere l’Imu. E un documento dell’Ufficio analisi economiche dell’Abi va ancora oltre: per i banchieri un aumento di dieci punti percentuali delle famiglie dotate di carta farebbe riemergere 10 miliardi. E se a dotarsi del tesserino di plastica fossero proprio tutte i nuclei familiari la cifra salirebbe a 40 miliardi. QUELLI CHE CI MARCIANO Chi compra usando la carta ha solo vantaggi: a partire dal fatto di non rischiare di smarrirlo o farselo rapinare (la sicurezza è il principale driver al ricorso ai pagamenti elettronici, come dice uno studio del 2012 di Hall & Partners). Se poi l’acquirente usa la carta di credito sosterrà materialmente l’esborso solo in un secondo tempo e senza pagare interessi. Ma chi ci guadagna in maniera più consistente, come dimostra un recente studio di Edgar Dunn & Co., è l’esercente, che vende di più, risparmia sui costi di gestione del contante, ed è garantito dalle banche. I conti dicono che il valore aggiunto derivante dall’uso delle carte è pari al 7,8 per cento dell’ammontare delle transazioni effettuate con questi strumenti. Mentre il costo complessivo si ferma al 3,4 per cento. Insomma il negoziante (o il ristoratore o il parrucchiere) ha tutto da guadagnarci. E infatti è lui a finanziare con la quota maggiore il sistema che deve garantire la remunerazione delle due banche parte del business: la sua (che trattiene una commissione) e quella del compratore, che si fa girare dalla prima una parte della commissione stessa per aver dato la sua garanzia sull’importo dovuto dall’acquirente. Se dunque l’esercente non si dota del Pos, sostenendo che il sistema è troppo caro, c’è una sola spiegazione logica: non ha alcuna intenzione di far sapere al fisco che ha incassato quella somma. Cosa che diventa molto rischiosa se accetta un pagamento tracciabile. Il resto sono solo balle. Come quella di chi sostiene che in Italia si usano poco le carte perché la popolazione è più anziana che altrove: la Germania ha la stessa quota di ultrasessantacinquenni (il 20 per cento) e il doppio dei tesserini magnetici. SOSTIENE IL GOVERNO Il problema vero è dunque l’evasione fiscale. E i milioni di voti che la lotta nei suoi confronti può spostare e senza i quali non si vincono le elezioni. Un fattore che pesa, sia pure in misura molto diversa, in tutti i Paesi. E infatti i politici su questo fronte traccheggiano a ogni latitudine. In Italia il governo Monti aveva promesso di intervenire, regolamentando le commissioni bancarie a carico dei commercianti. Si era parlato di un provvedimento del ministero dell’Economia concertato con quello dello Sviluppo Economico, sentite la Banca d’Italia e l’Antitrust, che a gennaio scorso ha espresso il suo parere. Quattro paginette dove si invoca maggiore trasparenza e dunque concorrenza. Dalla lettura del documento dell’Authority si capisce chiaramente che l’esecutivo è sceso a più miti consigli: stando alla bozza, che risale a diversi mesi fa, il decreto non interviene sulla commissione pagata dall’esercente al proprio istituto di credito, ma si limita a stabilire che non debba mai salire quella interbancaria (in genere tra lo 0,6 e lo 0,7 per cento, con punte dell’1 per cento). Una mezza pagliacciata, insomma. Per giunta sparita in qualche cassetto del nuovo governo. Né più incisiva appare l’iniziativa strombazzata nei giorni scorsi dalla Commissione europea. A Bruxelles hanno approvato una proposta di regolamento in base alla quale scatterebbe un tetto alle commissioni interbancarie dello 0,2 per i Bancomat e dello 0,3 per le carte di credito. Uno sconto a favore della banca del commerciante, che potrebbe (e non dovrebbe: e c’è una bella differenza) trasferirlo alla tariffa applicata al suo cliente: se anche lo facesse per l’intera somma (e quando mai) si tratterebbe di una limatura della commissione di mezzo punto percentuale. Nel caso italiano, significherebbe offrire uno sconto dello 0,5 per cento a un gioielliere, per esempio, che se invece si fa pagare in contanti e non mette gli importi nella sua dichiarazione dei redditi risparmia il 23 per cento sui primi 15 mila euro e il 27 sui successivi 3 mila (in media la categoria sta, scandalosamente, a quota 18 mila). Da ridere, insomma. In realtà, una soluzione semplice ci sarebbe. L’hanno sperimentata, all’inizio degli anni Duemila, nella Corea del Sud. Dove prima hanno imposto un tetto al contante equivalente a 42 dollari. Poi hanno concesso ai titolari di carta che la utilizzavano per gli acquisti e si prendevano la briga di conservare la ricevuta uno sconto fiscale (che per giunta garantiva la partecipazione a una lotteria) fino a un massimo di 4.200 dollari l’anno o del 20 per cento del reddito. E ribassato del 2 per cento l’Iva ai commercianti che dimostravano di aver incassato tramite Pos. Ha funzionato. Algebris Investments ha studiato il caso. E sulla base di dati della Myongji University si è presa la briga di calcolare che quelle semplici misure hanno ridotto il sommerso di cinque punti in percentuale sul Pil. Da noi vorrebbe dire recuperare d’un colpo 20 miliardi di gettito fiscale. Insomma, fare si potrebbe fare. Ma siamo in Italia. I governi si baloccano solo con ipotesi che non stanno in piedi. E, soprattutto, non fanno un baffo agli evasori.