Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
Amaro compleanno per Berlusconi, la cui maggioranza dipende ufficialmente dai finiani e che deve rassegnarsi – se vuol durare – a discutere con Futuro e libertà e con i siciliani di Lombardo. Futuro e libertà, oltre tutto, avvierà martedì prossimo la procedura per trasformarsi in partito.
• Spieghi bene.
Partiamo dalla fine. Chiamati a votare la fiducia, hanno detto “sì” 342 deputati, “no” 275 e tre si sono astenuti. Apparentemente (e paradossalmente) un sostegno assai largo, più largo, per esempio, di quello che il governo ricevette nel giorno del suo insediamento. Ma, facendo i conti, si vede che questa messe di voti nasconde molte crepe. I finiani sono 35 e la fiducia l’hanno votata in 33 (Briguglio e Tremaglia hanno detto “no”). Quelli dell’Mpa, il movimento di Lombardo, sono 5 e si sono schierati con Berlusconi. Fa 38. Se togliamo 38 da 342 viene 304. Siamo molto lontani dalla maggioranza assoluta di 316. Anche ieri – giorno in cui la maggioranza richiesta era di 309 – il governo sarebbe andato sotto senza i voti di Bocchino e Lombardo.
• Mi sembrano contorsioni, alla fine. Se la maggioranza è tanto ampia…
Ampia, ma per niente sicura. Berlusconi vuole varare il processo breve con tanto di clausola retroattiva che lo metterebbe al sicuro. Fini ha già detto di no, sia a Mirabello che sabato sera via Internet. C’è il federalismo fiscale, e qui i futuristi punteranno i piedi per distinguersi da Bossi e mostrare all’elettorato meridionale - quello che sarà decisivo al momento del voto - che il Fli difende i loro interessi. Si chiama “logoramento”: il Pdl e la Lega possono sì continuare a governare, ma scendendo continuamente a patti col gruppo di Fini. Il quale si dedicherà, d’ora in poi, a radicare il partito sul territorio in modo da non farsi cogliere impreparato in caso di elezioni anticipate. Ergo: tenterà di tenere in piedi Berlusconi per tutto il tempo necessario. Mentre Berlusconi sarà costretto a scegliere al più presto la strada delle urne per non permettergli di rinforzarsi e per non dare il tempo neanche al Pd di sanare le proprie fratture interne e fare altri accordi.
• Capisco. Che cosa aveva detto nel suo discorso il presidente del consiglio?
Niente di sensazionale. Il premier, in grigio scuro, camicia azzurra, cravatta blu, aveva parlato per 57 minuti, senza azzardarsi a nominare il processo breve e solo accennando, relativamente alla giustizia, alla separazione delle carriere dei magistrati e alla creazione di un doppio Csm. Ha corteggiato il Sud promettendo il completamento della Salerno-Reggio (Casini ha poi detto: «ma se stamattina hanno tagliato i fondi…») e 21 miliardi di investimenti, e garantendo che il federalismo fiscale «non prevede la benché minima ipotesi di divaricazione tra Sud e Nord». Ha poi promesso, ancora una volta, l’introduzione del cosiddetto quoziente familiare, cioè del sistema per cui il reddito della famiglia si divide secondo i suoi componenti e in questo modo si pagano meno tasse. Lo vogliono i cattolici, lo vuole l’Udc e annunciarlo come intenzione è facile e conveniente, salvo il particolare che costerebbe 12 miliardi, una somma che andrebbe presa da qualche altra parte (probabilmente con nuove tasse).
• Gli altri che hanno detto?
I finiani hanno annunciato il voto di fiducia e, quando si son visti i numeri, Bocchino ha fatto capire che «adesso si dovranno fare i conti con noi». I finiani sono in asse con l’Mpa, puntano a prender voti al sud, vogliono che il Pdl e la Lega ammettano ufficialmente che a questo punto il governo viaggia su quattro gambe e non più su due.
• L’opposizione?
Di Pietro ha fatto un discorso tremendo, chiamando Berlusconi «piduista», «ricattatore», «pregiudicato illusionista», «stupratore della democrazia», «serpente a sonagli», «imputato Berlusconi, hai 64 società off shore». È l’unica volta in cui il premier s’è rivolto a Fini, che gli stava seduto sopra, per chiedere di farlo smettere. Fini ha richiamato il capo dell’Idv quattro volte, ma inutilmente. Bersani ha definito il discorso del premier «incommentabile». Il vero commento in realtà l’hanno fatto i leghisti. Mentana ha fatto vedere Maroni che parla con Nichi Vendola e Franco Giordano, e ragiona sulla data delle elezioni, se si debbano tenere il 27 marzo o il 3 aprile. Bossi l’ha detta chiara ai giornalisti: «La strada è stretta e i numeri risicati, nella vita è meglio prendere la strada maestra, la strada maestra è il voto. Berlusconi il voto non lo ha voluto e ora siamo a questo punto». E poi: «A lungo termine non regge niente». [Giorgio Dell’Arti, Gazzetta dello Sport 30/9/2010]
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