Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  settembre 30 Giovedì calendario

DIMMI COME TI CHIAMI E TI DARÒ UN PO DI PIÙ

Perché tanti immigrati, nei paesi che lo consentono, hanno cambiato o cambiano, ieri come oggi, il loro cognome? Una domanda solo all’apparenza curiosa che riguarda una tecnica d’integrazione mimetica assai poco conosciuta ma molto diffusa tra gli immigrati. Oggi forse meno diffusa di ieri, come spiegava un articolo del New York Times di qualche giorno fa visto che «new life in America no longer means a new name» (vita nuova in America non significa più nome nuovo). Ma che ha rappresentato una scelta di vita per decine, centinaia di migliaia d’immigrati europei - italiani, irlandesi ed ebrei dell’ex Impero asburgico in testa - sbarcati a milioni negli Stati Uniti a cavallo della fine dell’Ottocento e lo scoppio del conflitto del 1915-18 e, in seguito, negli anni nell’immediato secondo dopoguerra.

Poiché gli esempi spesso aiutano a capire meglio di tante parole vale allora ricordarne alcuni. Quello del celebre costruttore tedesco di pianoforti Steinweg semplificato in Steinway; del boss di Chinatown Tong rinominato Tom Lee o quello, ancor più singolare, di Anna Maria Italiano ribattezzata Anne Bancroft. E nel mondo dello spettacolo restano celebri quello di Robert Zimmerman divenuto Bob Dylan, di Allen Konisberg alias Woody Allen e Bernard Schwarts rinato Tony Curtis.

Una transustanziazione anagrafica non sempre né per tutti frutto di una libera e consapevole scelta. Vent’anni fa, circa, a San Francisco, il grande poeta e scrittore Lawrence Ferlinghetti mi raccontò infatti di aver saputo di possedere un cognome italiano solo da grande. Quando i militari addetti alla selezione delle reclute gli avevano dimostrato, carte alla mano, che il suo patronimico era proprio quello e non Feeling, come gli avevano ripetuto, fin dalla nascita, i genitori. In particolare il padre che, una volta traversato l’Atlantico, aveva stabilito che per il bene della famiglia e il futuro dei figli la prima cosa da fare era quella di nascondere, cancellandole, le stimmate dell’immigrazione italiana incollate a lettere cubitali sul cognome.

Ma tornando alla domanda iniziale, come si fa a sapere, almeno per grandi linee, se la modifica del nome è veramente utile agli immigrati? O se invece, come alcuni sostengono, l’impresa non vale la spesa perché conseguenza di un vero e proprio cedimento psicologico collegato al loro spasmodico bisogno di accettazione e dalla ricerca di uno scudo contro le pressioni esterne non amichevoli verso la loro diversità?

Un buon metodo per rispondere alle domande è utilizzare le pagine e i dati di «Renouncing personal names: an empirical examination of surname change and earnings», una delle migliori indagini mai realizzate in Europa sulla materia, pubblicata alla fine del 2008 da Mahmood Arai e Peter Thoursie. Che hanno analizzato le conseguenze economiche e le ricadute professionali sperimentate dai lavoratori stranieri in Svezia che tra il 1990 e il 2000 avevano cambiato il loro cognome d’origine. Giungendo alla conclusione che agli immigrati, tutto sommato, cambiare nome conviene. Ma sub conditione.

Innanzitutto perché questo non vale per tutti e neppure nella stessa misura. In secondo luogo perché ciò vale solo se la modifica è radicale. Senza alcun possibile richiamo alle lontane origine straniere. Terzo. Cambiare nome non serve ai lavoratori asiatici e africani. Semplicemente perché la loro fisionomica e il colore della pelle vanificano in re la possibilità di riceverne il benché minimo ritorno. Quarto e ultimo punto: il bottino che va ai vincitori. Che grazie a questo stratagemma riescono a superare, più degli altri, le barriere di esclusione e di non pari opportunità presenti nel mercato del lavoro della civilissima Svezia.

Frequenti inviti a colloqui di lavoro, maggiore facilità nel trovare un impiego, offerta di mansioni meglio remunerate e gratificanti.