Giuliano Ferrara, Panorama 30/9/2010, 30 settembre 2010
PROFUMO E LA MITOLOGIA DEL BANCHIERE SENZA MACCHIA
Alessandro Profumo è un banchiere il cui talento è universalmente riconosciuto. Questo va detto immediatamente dopo la sua caduta. Ha alle spalle una storia personale che mostra grande forza di volontà e fantasia nell’invenzione di sistema, nella gestione del potere manageriale, nel servizio alla collettività e nella spinta all’internazionalizzazione e modernizzazione del credito. Non è da tutti assemblare la più grande banca italiana e una delle più influenti in Europa sulla scia delle privatizzazioni di metà anni Novanta; e poi uscire dal club editoriale (Rcs) in cui tutti vorrebbero entrare, e poi trascurare utili legami politici dicendo no alle operazioni finanziarie intorno alla Telecom, prima, e all’Alitalia poi. Eppoi salvarsi nella crisi mondiale dei derivati.
Si può storcere il naso per quell’aria da primo fico del bigoncio liberal che intorno a Profumo si è diffusa per la sua partecipazione al voto per Romano Prodi alle primarie e per l’attivismo bindiano di sua moglie Sabina Ratti; ma certo non è stato, a capo dell’Unicredit, un esibizionista politico, un cultore del teatrino di corridoio, un opportunista di serie b come ce n’è tanti. Però la verità della sua parabola è che non esistono innocenti nel gioco del potere finanziario, e il mito alimentato dalla sinistra, questa idea che ci siano banchieri neri e banchieri verdi o perfettamente trasparenti, è una solenne bestialità.
Profumo cade per aver esagerato nella gestione solitaria del suo potere, e i suoi cantori dicono che ha perso una guerra d’indipendenza. Però questo Garibaldi della finanza aveva per alleati in questa guerra d’indipendenza capitali libici (e fin qui passi, chi ha mai voglia di mettersi a fare del moralismo?) e un pezzo ancora indecifrato della politica nazionale e del nucleo forte della galassia del Nord sopravvissuta alla scomparsa di Enrico Cuccia. Profumo fece fuori Vincenzo Maranghi alleandosi con Cesare Geronzi, grande banchiere di stirpe politica, e ha agito sempre, non solo nella fusione con la romana Capitalia e nelle guerre intorno all’assetto della Mediobanca, con nitidezza e insieme con senso realistico delle circostanze e dei rapporti di forza.
Il boss di formazione McKinsey, coccolato dal giornalismo di sinistra e dall’establishment che si piace, non è restato vittima di un’aggressione della Lega di Umberto Bossi e delle fondazioni territoriali o di un oscuro complotto paragovernativo, sono scempiaggini: il suo killer è l’asse del Brennero, cioè un giro lombardo-veneto e austriaco-bavarese che rappresenta inequivocabilmente, con l’appoggio finale della fondazione torinese Crt, un blocco di capitalismo finanziario internazionalizzato e insieme localizzato, un insieme di azionisti difficile da trascurare, emarginare, scansare in favore di una logica da public company avventurosa in cui, con capitali racimolati segretamente sul mercato, a dirigere e a decidere tutto in solitario sono i manager illuminati. Profumo, fino all’errore fatale della mancata comunicazione e mediazione intorno all’ingresso di una nuova quota di capitale libico, un comportamento imperdonabile per i tedeschi, aveva fatto banca e politica, come tutti i banchieri in questi decenni. Come tutti, sempre. I miti sono miti, la realtà è la realtà.