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 2010  settembre 30 Giovedì calendario

Quella barbiera non è roba per pisquani - Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo stralci del libro Sillaba­rio della memoria

Quella barbiera non è roba per pisquani - Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo stralci del libro Sillaba­rio della memoria. Viaggio sentimenta­le tra le parole amate ( Salani) di Federi­co Roncoroni, in libreria da oggi. BARBIERA (sostantivo femmi­nile). Donna che di mestie­re taglia capelli e rade barbe? No, sicuramente no. Allora, mo­glie di barbiere? No, neanche questo significato ci stava nel di­scorso. Ben altro ti­po di donna voleva indicare con «barbie­ra » Paolo Rossi, Pre­sidente della Corte Costituzionale, il giorno in cui andam­mo a trovarlo, Piero Chiara e io, alla «Gat­taiola » in quel di Luc­ca: una donna che ti pela e scortica con femminile grazia e arte fino a ridurti in miseria, una, insom­ma, che ti faceva bar­ba e capelli sì, ma in senso metaforico. E con quale altro termine un gentiluo­mo come Rossi, raffi­nato cultore e lettore di testi antichi, pote­va definire una don­na come quella di cui ci stava raccon­tando le gesta, una donna ben nota per la sua bellezza, che si era abilmente inserita nel giro dei faccendieri e dei politici ro­mani al tempo dell’affare Lockheed e, in quel turbinio di miliardi, si era fatta ricca impie­gando i soli mezzi che aveva, cioè mani, labbra, lingua, tette, cosce, figa eculo? Tra i tanti no­mi che anche allora si potevano usare, con quale uno come Ros­si poteva con tanta eleganza esprimere la naturalissima tec­nica, «la lenta soavità, la sagace ponderazione, i riposi e le ripas­sate » (Leo Pestelli) con cui la si­gnora in questione aveva fatto, e bene, il suo lavoro? GAVAZZARE (verbo). Far bal­doria, darsi alla pazza gioia. È una parola antica - risale al p g Trecento - , registrata nei dizio­nari come antiquata e pratica­mente scomparsa. Tra gli ulti­mi a usarla furono, nell’Otto­cento, Alessandro Manzoni in un passo del Fermo e Lucia che non sopravvisse alla seconda stesura del romanzo, Giosue Carducci e Giovanni Pascoli, ma in poesia, e Arrigo Boito, che gli dà come soggetto il ven­to creando un’immagine me­morabile: «Nella Galleria, tra gli stucchi sgretolati, il vento ga­vazza ». Poi, nel Novecento, la recuperano Riccardo Bacchel­li, che la incastona in una delle descrizioni di cui è maestro: «Con la fine della guerra, la cit­tà gavazza e s’ingaglioffa e stra­vizia e involgarisce», e natural­mente Carlo Emilio Gadda. Da Gadda io la sentii pronunciare, irosamente, la volta che lo an­dai a trovare, a Roma, in via Blu­mensthil 19, all’inizio degli an­ni Settanta, insieme a un intel­lettuale che lo frequentava per arraffare qualche inedito. L’in­gegnere, che non era di buonu­more, dopo un intenso fuoco di sbarramento a base di convene­voli e di scuse «per la povera ac­coglienza », per il disordine e per le cattive condizioni di salu­te che lo rendevano, disse, «me­no socievole» del giusto, rispo­se alla richiesta di qualche te­sto da pubblicare con una battu­ta che dipingeva alla perfezio­ne lo stato del suo «archivio» e che, di fatto, ho ritrovato poi puntualmente in un suo scrit­to: rispose che di carte inedite, di scartafacci, ne aveva «tanti da gavazzarci dentro» ma che quel giorno proprio non era il caso di mettersi a cercarli. MATERASSABILE (aggettivo). «Di donna che si mantiene sempre discretamente bella e in carne», secondo che scrive nel 1887-1891 Policarpo Petrocchi nel suo Nòvo dizionàrio univer­sále della lingua italiana , cioè «di persona che può essere stesa su un materasso, scopabile», co­me si legge nel Manuale di lin­gua e mitologia urbana pubblica­to on line nel sito http://www. bruttastoria.it/dictionary e data­to 2008. Tra le due definizioni in­tercorrono cento ventun anni e la differenza di età si nota. Il Pe­trocchi limita alla donna la mate­rassabilità, mentre il sito web, più moderno, non fa distinzioni e la considera proprio di qualsia­si persona, donna o uomo che sia, e in ciò è perfettamente in li­nea con i blogger e i navigatori della rete:una buona percentua­le delle 2240 occ­asioni in cui l’ag­gettivo compare è riferito a uomi­ni, da perfetti sconosciuti a Geor­ge Clooney a Luca Zingaretti. PISQUANO ( sostantivo). Ragaz­zino stupido, sciocco, che non vale niente. Noi, da bambi­ni, lo usavamo come epiteto, dentro e fuori scuola, per mette­re al suo posto qualche compa­gno che esagerava con i suoi scherzi o, peggio, rovinava qual­ch­e scherzo con il suo comporta­mento inopportuno. Un pisqua­no, per esempio, fu definito in Terza elementare e rimase per sempre, nel ricordo di tutti, il Giu­lio Mastrangelo, figlio di imbian­chino e imbianchino pure lui, che, un anno, con le sue mattane scolastiche offrì alla maestra Li­na l’occasione per escludere la nostra classe dalla visita al Tem­pio Voltiano. «Sei un pi­squano », gli disse l’Al­dino e da allora lo chia­mammo tutti Pisqua­no. Nella nostra testa il termine equivaleva a «pistola», cui in qual­che modo suonava si­mile alle nostre orec­chie. E come una pro­babile deformazione eufemistica di «pisto­la » lo definisce nel 1963 Bruno Migliorini, il primo a registrarlo in un dizionario: è, a suo giudizio, un «vocabolo milanese» diffuso in Italia dalla rubrica La signorina Memè del Marc’Aurelio . Invece, oggi che nessuno la usa più da decenni, si pensa che sia sì una vo­ce di area lombarda, ma derivi dall’inglese « pipsqueak », «indivi­d­uo stupido e insignifi­cante, cosa di poco va­lore », con l’aggiunta del suffisso -ano. NAGOTTA (avverbio e sostantivo). Nul­la, niente. È l’italianiz­zazione della forma dialettale lombarda « nagòtt », che in casa mia risuonava spesso in espressioni come «L’è bel fa nagòtt», «È bello fare niente»; «Mi u fa finta de savè nagòtt», «Io ho fatto finta di non sapere nien­te »; «Fà nagòtt», «Non fa niente», nel senso di «Non preoccuparti, non fa niente, non mi sento offe­so »; o anche «Un bel nagòtt» o «Un bell nagotta», «Un bel nul­la ». La trascrivo qui, dal libro del­la memoria, questa parola della mia infanzia, sia per il di più di amore che le porto come a tante altre parole di quegli anni vissuti in famiglia sia per l’etimologia che ne dà Francesco Cherubini: «nagott», dal latino ne gutta qui­dam , «neppure una goccia».