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 2010  settembre 30 Giovedì calendario

A MORIAH, DOVE I COLONI TORNANO A COSTRUIRE «BASTA SFRATTI, VOGLIAMO METTERE RADICI» —

Dunque, ricostruendo: «Gli Orlinzky, quelli che abitano qui davanti, vanno nelle nuove case. I Vasena hanno già comprato. I Neumann non lo so, ma penso di sì. Gli Shapira, credo ci stiano ancora pensando. Un po’ come noi...».
Andiamo, è tempo d’insediare. Nel container 2163 si mastica shakshuka e si rimasticano vecchi pensieri. Seduta attorno al tavolino di formica, un rotolo di carta igienica bianca che è il tovagliolo per tutti, due lampadine bianche a basso consumo e ciascuno che si lava il suo piatto, la famiglia di Amitai e Rachel Frenkel serve agli ospiti uova, pomodoro e un po’ d’agitazione, tutt’insieme. Prima cosa, guardare che fanno i vicini: «Sembra d’essere tornati ai giorni di Gaza. Lo scongelamento ci costringe a una scelta. Qui, sbaraccheranno tutti. Proprio adesso che ci stavamo abituando...». I Frenkel sono contenti. Non contentissimi: quasi quasi, dice Rachel, «era meglio stare come stavamo. Dobbiamo fare un altro trasloco. Il terzo in cinque anni. Eravamo a Netzarim, nella Striscia, e ce ne siamo dovuti andare. Eravamo in un appartamento di Ariel e ci hanno sfrattati in questa roulottopoli. Ogni tanto ci piacerebbe essere padroni della nostra vita e non dipendere da qualcuno, a Gerusalemme o a Washington, che decide se e dove possiamo vivere».
Il se, è deciso da un pezzo: le colonie in Cisgiordania esistono e s’allargano da quarant’anni, contro ogni legge internazionale, e nessun governo israeliano ha mai osato rimuoverle. Il dove, i coloni di Moriah, frazione di Ariel, l’hanno stabilito domenica scorsa, quando Netanyahu ha detto no a Obama ed è finito il congelamento delle nuove costruzioni: andranno quasi tutti a vivere al di là dello stradone, cinquanta metri più su, oltre la Jerusalem Street che taglia il grande insediamento di Ariel. Sono tre giorni che a Moriah si trivella e si va di ruspa, anche la notte, ed è un fracasso che non toglie il sonno a nessuno. Anzi. Lo spazio riservato alle nuove case sta sulle planimetrie del municipio dal 2008, proprio di fronte agli alloggi degli studenti universitari.
E il nuovo shechuna, il quartiere, sarà una colonia molto particolare: ospiterà sessanta delle famiglie che il governo Sharon sgomberò dalla Striscia di Gaza, nel 2005. Coloni decolonizzati. E ora, ricolonizzanti: «C’è voluto un sacco di tempo per vedere l’inizio della fine — dice Yitzik Vasena —. Gaza mi manca, certo. Era un posto bellissimo. Metà di noi se ne sono andati a vivere nel deserto, al confine con l’Egitto. L’altra metà s’è sparpagliata. Ma quando sono arrivato qui, dal primo giorno, ho cominciato a progettare la mia nuova casa. Non sono fatto per la vita nei container. Voglio cemento e mattoni».
La piccola Gaza di Ariel è provvisoria come centinaia d’outpost in Palestina. Il container 2163 sta sollevato su quattro pile di mattoni, 45 metri quadrati, ha un tinellino con angolo cottura e una camera da letto per tutt’e cinque i Frenkel. Rachel ha 25 anni, il foulard sui capelli mollettati, i piedi nudi, le mani rosse e graffiate di chi si occupa da mattina a sera di Batiah (la figlia di Dio), 5 anni, di Ori che ha tre anni e la kippah, di Elkana che ha un anno. Un computer, quaderni scarabocchiati, una poltrona sfondata, magliette impataccate di succo di mele, gatti e scivoli di plastica, una parete di libri sacri in bella rilegatura oro e pelle: Amitai non lavora, passa tutto il giorno alla yeshiva, la scuola religiosa, e studia solo i testi sacri. Batiah e Ori vanno a un asilo a un quarto d’ora di macchina, perché in quello qui vicino ci sono troppi laici. «Quel che faremo dipende dalla yeshiva — dice Rachel —. Sono loro che pagano tutto, potrebbero anche dirci di spostarci a Gerusalemme Est. Quando ce ne andammo da Gaza, anche noi avevamo scelto il deserto. Poi il rabbino ci ha detto di no: bisogna stare nel cuore d’Israele. Allora siamo venuti in una casa di Ariel». Ma perché sempre e solo nelle colonie dei Territori palestinesi? «La nostra legge è la Torah — dicono i Frenkel — e viene prima d’ogni risoluzione Onu. Questa è terra d’Israele».
Cambiare casa, oltre lo stradone, costa un milione di dollari. Molti coloni ce li hanno perché glieli mandano dall’estero, quelli di Gaza ce li hanno perché il governo israeliano fu generoso con gl’indennizzi, quando li sfollò a manganellate dalla Striscia. «Il soldato che buttò fuori noi era un amico di mio marito — racconta Rachel —. Io avevo il pancione, fu uno choc. Per un po’, non ci siamo più parlati. Ma adesso è tutto passato e siamo tornati a frequentarci». Ci vorrà un anno, per il nuovo villaggio. «Il giorno prima del congelamento — spiega Vasena — noi avevamo chiamato la ruspa per iniziare a scavare. Un vicino ci ha chiesto di prestargliela, così abbiamo rinviato. Una fregatura: lui in questi mesi ha potuto costruire, noi no. Adesso vogliamo spicciarci, prima che qualcuno cambi idea di nuovo...». Roi, il figlio, 7 anni, guarda preoccupato le trivelle: «E se poi ci dicono di no? Non ho ancora scelto la mia stanza!...». «Non credo che avranno il coraggio di congelare ancora — dice Rachel —. Obama ha perso la sua battaglia». Fare in fretta: si mangia al cantiere, si fanno i turni per il sonno. I muratori sono tutti palestinesi, terrorizzati dalle minacce: «Noi siamo per l’Autorità palestinese, chiaro — dice Riad —. Ma siamo anche per vivere in pace. Ho bisogno di lavorare: che problema c’è, se è nei loro cantieri? Se non lo faccio io, lo fa qualcun altro...». Domenica sera, a Moriah s’è messo in piedi un grande barbecue. A festeggiare la fine del congelamento, c’erano una ventina di coloni. E sessanta arabi. Che hanno portato pure la birra.
Francesco Battistini