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 2010  settembre 30 Giovedì calendario

LA MORALE DEI NEURONI

Perché l’uomo prova un’insopprimibile esigenza di capire il funzionamento del proprio cervello? Come riesce a studiarlo? E, soprattutto, ciò che va imparando lo aiuta a progredire e a risolvere gli interrogativi ancestrali, così come a risolvere questioni nuovissime quali quelle riguardanti l’intelligenza artificiale? Sono queste (e molte altre) le domande cui tenta di dare spiegazione la neurofilosofia, la disciplina che si propone di trovare un terreno comune tra neuroscienze e pensiero. Tra i suoi fondatori vi è Patricia Churchland, ordinario di filosofia all’Università di San Diego e autrice, spesso insieme ai più importanti nomi delle neuroscienze mondiali, di pubblicazioni fondamentali sulle principali riviste scientifiche, nonché di libri divulgativi nei quali cerca di spiegare perché è indispensabile unificare le scienze del cervello e quelle della mente, come recita il sottotitolo del libro del 1989 chiamato appunto Neurophilosophy. In Italia per BergamoScienza, è la stessa filosofa a definire meglio la materia: «La neurofilosofia cerca di rispondere a domande che stanno al confine tra le neuroscienze, la psicologia e la filosofia, ossia a interrogativi che riguardano i processi decisionali, la coscienza del mondo circostante, la consapevolezza di sé, le origini del comportamento morale e così via, e si occupa anche di genetica e di biologia evoluzionistica».

La neurofilosofia è giocoforza una disciplina recente, proprio perché si basa sulle scoperte degli ultimi decenni nell’ambito dei meccanismi fondamentali che regolano la formazione del pensiero, e la sua nascita è stata segnata da alcuni passaggi cruciali, che la Chruchland così sintetizza: «Tra i lavori più importanti vi sono senza dubbio quelli di Eric Kandel sull’apprendimento, che origina da mutamenti nelle connessioni nervose, insieme a quelli di scienziati che, grazie a modelli computerizzati, hanno mostrato il ruolo dell’apprendimento associativo nelle reti neurali, nonché i dati sui neuroni specchio elaborati dal gruppo di Giacomo Rizzolati». La compenetrazione tra i due settori storicamente divisi è comunque nei fatti già da anni, come sottolinea la stessa filosofa. «Pensiamo a che cosa accade in seguito a un ictus che colpisca la regione della corteccia orbitofrontale: mutano non solo le funzioni prettamente fisiche ma anche quelle più profonde. Alberto Damasio ha dimostrato che pazienti con lesioni della corteccia prefrontale mostrano danni all’intelligenza misurabili con il quoziente intellettivo e, per esempio, difficoltà nei processi decisionali, e che le emozioni sono determinanti nella formazione del giudizio, un dato che avrebbe lasciato stupefatti i filosofi classici».

Le neuroscienze stanno quindi influenzando profondamente il pensiero filosofico, perché con le loro certezze hanno messo in dubbio la visione classica della separazione tra mente e cervello, proponendo modelli alternativi, ma è vero anche il contrario? Le nuove visioni filosofiche stanno modificando anche l’approccio alle neuroscienze? Risponde Churchland: «Certamente. Per esempio, ritengo che la ricerca della soluzione di un problema sia la ricerca di un equilibrio tra ciò che limita la nostra libertà di azione (credenze, scopi, paure, speranze e percezioni, probabilità di diversa importanza) e ciò che può assicurarci una piena soddisfazione. Questo processo non è una deduzione, è qualcosa che non è stato ancora spiegato ma che inizia a essere oggetto di studio proprio grazie a una collaborazione sempre più stretta tra filosofi e neuroscienziati». Andando ancora di più nel concreto, l’impronta della neurofilosofia appare netta anche in tutte quelle discipline che puntano a riprodurre il funzionamento del cervello nelle macchine. Ancora Churchland: «Fenomeni quali l’apprendimento e la natura della conoscenza sono il risultato di mutamenti dei neuroni e della loro organizzazione in rete. Questo lo si è capito anche grazie ai modelli computerizzati, che sono stati fondamentali per capire in che modo una rete impara, ricorda, dimentica: un altro caso di compenetrazione feconda».

Infine, non si deve dimenticare che le nuove conoscenze (per esempio sulla dipendenza dalle droghe o sull’autismo, sulla depressione o sul ragionamento) hanno effetti sul modo in cui l’uomo pensa a se stesso e, di conseguenza, al suo futuro. Spiega la filosofa: «Ogni scoperta sul cervello modifica, sia pure in modo impercettibile, l’idea che l’uomo ha di sé e, soprattutto, gli dimostra che egli è come è perché il suo cervello funziona in un certo modo. Nel mio prossimo libro Braintrust: What Neuroscience Tells us About the Brain che uscirà a marzo (Princeton University Press) cerco di spiegare proprio questo: le origini del comportamento morale vanno ricercate in quelle modifiche dei neuroni che spingono i mammiferi a curare la prole e gli individui a cercare la vicinanza con i loro simili. Una prova? La presenza di ossitocina, un ormone antico che abbassa lo stress e fa aumentare la fiducia nel prossimo, passaggi fondamentali per creare delle comunità e avere un comportamento morale».