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 2010  settembre 30 Giovedì calendario

ANCHE LE BANCHE RICCHE PIANGONO


E alla fine il «mostro», compiuti i vent’anni, si ribellò. No, non è l’ennesima riedizione, magari a fumetti, della leggenda di Frankenstein. Bensì l’improvvisa mutazione delle fondazioni ex bancarie, un «mostro giuridico» come le definì il loro creatore Giuliano Amato, al momento di illustrare la legge approvata giusto vent’anni fa. La rivolta delle fondazioni venete, ma anche della subalpina Crt e degli emiliani della Carimonte, nell’Unicredit contro Alessandro Profumo, che aveva pieni poteri sull’istituto di piazza Cordusio, è una novità clamorosa, destinata a scuotere dalle fondamenta gli equilibri della finanza. Anche perché, forti dell’appoggio dei consiglieri tedeschi dell’istituto raccolti dietro il presidente Dieter Rampl, i rappresentanti in arrivo da Torino e Verona hanno trovato il coraggio di resistere alle pressioni di Giulio Tremonti, che invano ha cercato di scongiurare lo strappo nei confronti di Profumo: un Paese che, per dirla con il ministro dell’Economia, «ha il terzo debito pubblico del mondo senza possedere la terza economia» rischia assai a decapitare un centro nevralgico per il collocamento dei titoli di stato proprio quando la speculazione internazionale affila di nuovo le armi.

Ma stavolta sia Paolo Biasi, presidente della Cariverona, sia Andrea Comba (Fondazione Crt) e Andrea Landi della Carimonte sono stati sordi al richiamo di via XX Settembre. Né miglior fortuna ha avuto il pressing del ministro su Fabrizio Palenzona, il vicepresidente dell’Unicredit designato dalla Crt. Così come non era servito l’intervento, più discreto nei toni e nei contenuti, di Cesare Geronzi che nel fine settimana aveva perorato la causa dell’ex nemico Profumo presso lo stesso Gianni Letta: un ribaltone ai vertici di una delle grandi banche del Paese, in un momento così delicato della congiuntura, non promette niente di buono anche agli occhi del presidente delle Generali, pur premiato, all’apparenza, dall’uscita di scena del rivale.

Ma l’idea che nell’Unicredit, primo azionista della Mediobanca (a sua volta socio numero uno delle Generali) arrivi a comandare Rampl, a suo tempo, in occasione della riforma dello statuto, il suo più fiero oppositore in piazzetta Cuccia, non gli va certo a genio. E poi come dimenticare che proprio Geronzi pochi giorni fa ha definito i soci libici, pietra dello scandalo in Unicredit, «il mio miglior azionista»?

Insomma, il mostro di Frankenstein ha trovato il coraggio di ribellarsi non solo a Profumo e ai richiami della politica (da cui in larga misura dipendono le fondazioni) ma anche ai «poteri forti». O quantomeno ha dimostrato di avere una volontà propria, indipendente dai suoi demiurghi.

Oppure, ed è la tesi opposta, si è mostrato troppo obbediente agli ordini dell’ultimo manovratore: la Lega nord, che proprio alla vigilia del duello in Unicredit ha rafforzato le sue schiere nella Fondazione di Verona con sette consiglieri.

Ma basta il vento padano a spiegare la minirivoluzione bancaria? A ben vedere questa lettura sembra troppo semplicistica. Innanzitutto perché le truppe del Carroccio nel sistema delle fondazioni, almeno per ora, sono ben poca cosa: solo sette consiglieri su 25 a Verona; nessuno in Crt o in Compagnia San Paolo, a Torino, dove il governatore Roberto Cota si è mosso con grande cautela; in Lombardia due commissari su 40 nella commissione di beneficenza
Cariplo, dove il potere del presidente Giuseppe Guzzetti resta incontrastato.

Per giunta, ancora prima dello scontro in piazza Cordusio, Frankenstein aveva dato i primi segnali di risveglio in primavera, in occasione della maratona per la nomina del presidente dell’Intesa Sanpaolo. Anche allora, in una situazione comunque ben diversa da quella dell’Unicredit, la decisione di non ricandidare Enrico Salza, giudicato troppo tenero con i «milanesi» alla presidenza dell’Intesa Sanpaolo, era motivata dalla decisione di limitare la libertà d’azione dell’amministratore delegato Corrado Passera, già marcato stretto da Giovanni Bazoli.

Politica a parte, l’insofferenza delle fondazioni nasce anche da altre preoccupazioni. A partire dal fatto che, sotto i cieli della crisi, il sistema bancario rischia di essere cosa ben diversa da quella dea dell’abbondanza che negli anni Novanta garantì un decollo felice all’attività delle fondazioni ex bancarie. Allora, anche sotto la spinta di fusioni, acquisizioni e scalate più o meno ostili, dai forzieri del sistema affluivano nelle fondazioni i denari necessari per finanziare le loro attività sul territorio. Ma la crisi, ahimè, ha inaridito queste sorgenti di ricchezza. Nel caso dell’Unicredit, poi, le fondazioni, «viziate» per anni dalla crescita del titolo, hanno dovuto allargare i cordoni della borsa per ricapitalizzare l’istituto. Di qui malumori e dissensi sempre più diffusi che, a piazza Cordusio, si sono saldati con la presa di posizione dei consiglieri bavaresi, apertissimi verso Profumo quando si è trattato di evitare il fallimento di una banca decotta, ma poi rigidissimi in materia di governance.

Insomma, anche i ricchi piangono in tempi di crisi. Comprese le banche, sinonimo di ricchezza in un Paese «bancocentrico » come il nostro che non dispone di canali finanziari alternativi alla leva del credito. Certo, di fronte ai requisiti richiesti da Basilea 3 i nostri istituti sembrano messi meglio di altri. Ma, d’altro canto, colossi come la Deutsche Bank possono lanciare un aumento di capitale per poco meno di 10 miliardi confidando in una risposta positiva del mercato. E senza problemi di assetto azionario. Mentre in Italia, dove mancano investitori istituzionali, qualsiasi rilevante incremento di capitale minaccia di modificare gli assetti di controllo. Per questo motivo l’avanzata libica in Unicredit, al di là dell’allarme (un po’ strumentale, visto che lo stesso Rampl sapeva e andò in Libia), è solo la punta visibile di un fenomeno che minaccia di ripetersi, grazie anche alle basse quotazioni azionarie.

Finora, a garantire la stabilità del sistema, hanno pensato le fondazioni. Ma le banche, alle prese con il crollo dei tassi che riduce i profitti e con le sofferenze accumulate dal 2007, nei prossimi anni dovranno aumentare il proprio core Tier 1 (cioè il patrimonio) e sostenere l’economia con un adeguato flusso di credito. Difficile che possano mantenere un’alta remunerazione del capitale per i soci. Facile, all’opposto, che debbano praticare robusti tagli sui costi, anche a danno di quei territori dove operano le fondazioni che, per continuare a erogare quattrini a ospedali, università, musei e così via, devono disporre di rendimenti adeguati.

Non è esagerato, a questo punto, ipotizzare una lenta ritirata delle fondazioni dal sistema, già ventilata, per ora solo in teoria, da Angelo Benessia, presidente della Compagnia di Torino nell’audizione in comune. Ma l’uscita di Frankenstein dalle banche sarebbe un bel guaio, in assenza di alternative: urgono buone idee. Difficile pensare che il semplice ritorno al «primato del pubblico» lo sia.