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 2010  settembre 30 Giovedì calendario

IL GELO TRA I DUELLANTI STANCHI

«Allora mi fa: "Dammi atto almeno di una cosa: sto passando proprio un compleanno di m..."». Campasse un secolo, il dipietrista Massimo Donadi non dimenticherà il momento in cui ieri mattina Silvio Berlusconi ha mollato il banco del governo per raggiungerlo e sfogare con lui, l’acerrimo avversario che l’aveva appena martellato, la sua sofferenza. Misteri psico-politici: sentiva più odio, forse, dalle parti sue che non tra le file nemiche.
Non dev’essere stato facile, ieri, per il Cavaliere, venire a Montecitorio, sedersi al suo posto e restare lì inchiodato. Per ore e ore. In quell’aula che non ama e che era chiamato a omaggiare. Con Roberto Calderoli che in piedi, dietro di lui, i gomiti sullo schienale, pareva Anacleto, il gufo del mago Merlino. E ancora più su, alle spalle, la presenza muta e incombente di Gianfranco Fini. Odio. Dal partito dell’amore traboccava odio. Certo, sia il presidente del Consiglio sia quello della Camera erano arrivati all’appuntamento finale, che l’ex segretario di An aveva definito «una sfida all’o.k. corral», decisi a tenere i nervi saldi. A non ripetere lo scontro di quel giorno di fine aprile in cui andarono alla rissa. Con uno che urlava «se vuoi fare il politico lascia la presidenza della Camera!» e l’altro che strillava: «Sennò che fai: mi cacci?». Gelo, stavolta. Solo il gelo. E la determinazione dell’uno e dell’altro («al di là della politica io e Gianfranco siamo amici veri», disse una volta Silvio) a ignorarsi. A tutti i costi. Fin dall’inizio, quando il capo del governo, costretto a iniziare con la formula di cortesia, ha sì esordito salutando il «signor Presidente», ma girandosi appena appena con una mezza piroetta lo stretto necessario per non guardarlo in faccia. Gelo in aula. Gelo nel Transatlantico, dove i capannelli di deputati erano percorsi da una tensione mai vista. Gelo nei dintorni dei palazzi della politica e perfino nei ristoranti dove, solitamente, anche i più accaniti e malevoli rivali di partito finiscono per diluire l’ostilità davanti ai bucatini.
Tirava un’aria che ricordava l’angosciante descrizione di Luigi Pirandello del clima della capitale ai tempi dello scandalo della Banca romana. Parole che sembrano la cronaca di oggi: «Dai cieli d’Italia in quei giorni pioveva fango, ecco, e a palle di fango si giocava; e il fango s’appiastrava da per tutto, su le facce pallide e violente degli assaliti e degli assalitori (...) Diluviava il fango; e pareva che tutte le cloache della Città si fossero scaricate e che la nuova vita nazionale (...) dovesse affogare in quella torbida fetida alluvione di melma, su cui svolazzavano stridendo, neri uccellacci, il sospetto e la calunnia».
Perduta prima la scommessa sui «quattro gatti» che avrebbero seguito il cofondatore e poi quella sul gruppo della responsabilità, che lo aveva spinto ad annunciare «posso assicurare che non avremo solo una maggioranza: avremo una larga maggioranza», Berlusconi ha deciso di fare fino in fondo ciò che si era convinto che andasse fatto. E leggere il testo preparato per offrire agli avversari e a se stesso una tregua. E recitare il copione pagina per pagina. A costo di assumere via via un’aria più andreottiana («molto è stato fatto, molto resta ancora da fare») che berlusconiana. Di andare a prendersi le battute ironiche sul taglio delle tasse. Di rischiare le risate, puntuali, nella promessa di finire i lavori sulla Salerno-Reggio Calabria. E mano a mano che andava avanti, immensamente lontano dal Cavaliere immaginifico degli esordi, quello che Claudio Scajola venerava come «il sole al cui calore tutti vogliono scaldarsi», pareva sempre più cupo. Scuro. Ingrugnito. Arrabbiato con se stesso e col mondo. Mentre Fini, tornato a indossare dopo le pubbliche «masaniellate» i panni del politico freddo che aveva spinto Mario Segni a paragonarlo un giorno «al duca Valentino dei Borgia, che aspetta il logoramento di Berlusconi per proporsi come il vero leader della destra», guardava dappertutto, dai messaggini sul cellulare ai fogli che gli passavano i commessi, tranne la nuca arancione scuro del leader pidiellino che parlava un metro e mezzo più sotto. Finché a un certo momento, a spostare gli occhi dall’uno all’altro, avanti e indietro, mentre cominciava il mitragliamento delle opposizioni (più quello di Mirko Tremaglia, che tentando fieramente di dominare il tremolio del Parkinson ammoniva: «Voto contro: avete dimenticato gli italiani all’estero!») è sembrato di cogliere nei due irriducibili nemici un sentimento comune: la stanchezza. Una stanchezza mortale. Spossante. Logora, l’odio. Sfiancano, mesi e mesi di guerriglia.
Disse ai tempi della guerra tra Berlusconi e Bossi l’allora presidente di An: «Silvio odia Umberto con tutto il cuore, io non so odiare quanto odia lui». È ancora così? Mah... Fatto sta che a vederli così, accanitamente risoluti per ore e ore a non lasciare spazio alla loro inimicizia accantonando per qualche mese l’astio e il rancore in attesa di essere entrambi un po’ più pronti ad affrontare le elezioni, pareva di assistere a una « pelea de toros ». Quelle sfide peruviane ai piedi dei vulcani dove i tori restano l’uno davanti all’altro per minuti interminabili fingendo di ignorarsi. Assolutamente immobili. Finché di colpo, quando meno te lo aspetti, uno dei due si scaraventa contro l’altro. Esattamente ciò capita quando, dopo aver riso del paragone con Nerone ma essersi via via innervosito al progressivo tambureggiare di Antonio Di Pietro sui paradisi fiscali («Lei ne ha fatte ben 64 di società off-shore!») e «lo stupro della democrazia», inutilmente richiamato dal presidente della Camera a «usare un linguaggio più consono», mentre monta la rabbia dei deputati della destra che urlano di tutto, il capo del governo si volta spazientito verso l’uomo fino ad allora ignorato allargando spazientito le braccia: «Allora?». «Presidente Berlusconi, ho già richiamato l’onorevole Di Pietro». Fine.
E fine, per il momento, anche delle ostilità. In attesa di nuovi distinguo. Nuove precisazioni. Nuove rivendicazioni. Conta finale. Ultimi bisticci in Transatlantico. Poi via, basta. Tutti a casa. Con Massimo Donadi ancora incredulo per quanto è successo subito dopo il suo intervento in cui, ironicamente, aveva invitato Berlusconi a imitare, fra le tante promesse, una canzone di Lucio Dalla che «suggerisce di fare tre volte Natale». «Mi dice: "ma sei cattivo come sembri?" Gli fo: non mi pare proprio. E lui: "Allora ce l’hai con me?". E attacca a spiegarmi che lui è troppo buono, che anche sua mamma glielo diceva sempre... Finché, dopo aver tirato fuori non so quale storia di campanellini, a un certo punto ha fatto un sorrisone: "dammene atto, un compleanno proprio di..."».
Gian Antonio Stella