Oscar Giannino, Panorama 30/9/2010, 30 settembre 2010
NON PER SOLDI MA PER DENARO. DOVE HA SBAGLIATO PROFUMO
In banca l’azionista decide, ma è il manager a dirgli tra che cosa. Così diceva il grande Raffaele Mattioli alla Comit, il modello da cui non solo Enrico Cuccia ma anche i giovani banchieri McKinsey italiani hanno sempre tratto insegnamento. Alessandro Profumo tra tutti, in un decennio e mezzo di strepitosa cavalcata in Italia e altri 22 paesi. Ma quando i dividendi agli azionisti scendono a meno della metà rispetto al difficile anno precedente, e poi a un quarto o un quinto degli anni precrisi, come nell’ultima semestrale, e si è dovuto pure mettere mano al portafoglio per miliardi in aumenti di capitale, lo spazio dei manager si restringe. E di Mattioli non si ricorda più nessuno. Ecco spiegata la levata di scudi nell’Unicredit della Cariverona e dei trevigiani della Cassamarca, dei piemontesi della Crt, dei bolognesi della Carimonte e della fondazione Banco di Sicilia. Sono loro, con gli azionisti tedeschi, i veri assassini di Profumo. Non la politica.
La piena delega a Profumo si è rotta piano piano, nel corso degli ultimi due anni. E non solo per minori utili e dividendi, accantonamenti e rettifiche per miliardi ulteriori dopo avere rafforzato il capitale per oltre 6 miliardi. Le fondazioni non l’hanno mai voluto, un modello operativo accentrato sul capoazienda, con tre vice e sette proconsoli, come doveva essere l’Unicredit targata «S3» concepita da Profumo. «A lui la gestione tecnica, a noi le scelte di politica». Proprio così: «di politica» diceva il comunicato delle fondazioni il giorno del comitato operativo che ha rinviato l’Unicredit «one man bank» per tornare al modello di banca unica. E il comunicato era di mesi e mesi fa, non di questi giorni.
Profumo ha ammesso come nessun banchiere italiano, con due interviste al Financial Times a qualche mese di distanza dal crac Lehman Brothers, che dopo la crisi doveva cambiare modello di gestione e finanza. Ma quando chiese soldi ai soci, dopo averlo negato per mesi, perse aura e credibilità. E anche il suo rapporto con la Banca d’Italia, che nell’esito finale della vicenda ha avuto il suo peso. La richiesta formale di chiarimenti da via Nazionale per l’ascesa dei libici nel capitale ha infatti consentito a Dieter Rampl di farsi attribuire dal comitato governance dell’istituto il mandato a investigare. Il primo segnale che Profumo aveva un piede già fuori dalla porta.
Profumo a 20 anni lavorava già in banca, nel Banco lariano, 10 anni prima di laurearsi. Il suo merito indiscusso è di avere trasformato in 10 anni, dopo la privatizzazione, il Credito italiano da modesto istituto poco più che regionale nella più aggressiva banca italiana. Nel 2001 Business Week lo celebrava come «il più dinamico banchiere europeo», con utili che crescevano a botte del 27 per cento annuo. Più di 10 anni fa si pensò persino a un matrimonio della sua Unicredit con gli spagnoli del Banco Bilbao, ma l’Italia non era pronta. E venne allora l’espansione a est che oggi molti rimproverano, insieme alla crescita nel risparmio gestito con acquisizioni come quella dell’americana Pioneer, poi da dismettere.
Ma negli anni 2002-2004 è stata l’Unicredit Banca d’impresa (allora a guidarla era Pietro Modiano, poi in Sanpaolo, poi in Intesa e ora alla Carlo Tassara di Giovanni Bazoli) la prima grande banca a proporre ad alcune migliaia di piccole imprese italiane prodotti derivati che si rivelarono bombe a tempo, e fonti di perdite per alcuni miliardi di euro. È l’Unicredit di Profumo a essere condannata a rifondere oltre 220 milioni alla vecchia Cirio i cui bond fregarono migliaia di italiani, anche se una corte d’appello ha poi sentenziato che il pagamento è inutile, visto che la Cirio non c’è più. Ed è ancora la compagnia assicurativa vita dell’Unicredit a offrire ai clienti che avevano sottoscritto prodotti della Lehman un rimborso pari solo a metà del capitale, a differenza di altri istituti italiani che hanno dato ai clienti copertura integrale.
Quando Profumo riconobbe al Financial Times che doveva cambiare il modello gestionale della banca, con meno trading di prodotti finanziari, il titolo Unicredit valeva oltre 6 euro. Poi venne la grande paura. L’aumento di capitale tanto a lungo negato avvenne con modalità singolari, non solo con altri 700 milioni di perdite dichiarate sull’investment banking fino ad allora negate, ma in più coperto dalla Mediobanca attraverso l’emissione di titoli con vertibili speciali, dalla cedola molto onerosa. Modalità tanto singolari che la fondazione Cariverona di Paolo Biasi prima le votò, poi all’ultimo momento si tirò indietro. Lasciando spazio ai libici. Ma, da 3,08 euro dell’azione da sottoscrivere, il titolo Unicredit scivolò sino a sotto 1 euro.
È di quei giorni la profezia di Profumo che sarebbe andato in pensione assai presto. I 4 miliardi di utili 2008 incamerati senza dividendi, ma continuando a perdere quote di mercato domestico, furono accolti dalle fondazioni con un tacito patto: o l’anno prossimo cambia l’aria, oppure va a casa. Eccoci all’anno successivo, con una magrissima semestrale da solo poco più di 600 milioni di utili, e Profumo puntualmente è fuori.
Quando nel 2007 si preparava l’acquisizione della Capitalia da parte dell’Unicredit (capolavoro di Cesare Geronzi di cui Profumo poi si pentì), il professor Giovanni Bazoli, temendone gli effetti su Generali e Mediobanca, senza citare Profumo fece un ritratto spietato dei «banchieri all’americana ». Profumo alzò le spalle: non parla di me, disse. Fondazioni e azionisti tedeschi oggi hanno dato ragione a Bazoli. Non la politica, che ha assistito da Roma preoccupata con Giulio Tremonti delle conseguenze sistemiche di una dipartita senza successori pronti. Per il presidente dell’Intesa, Bazoli, una soddisfazione sicuramente maggiore che per Flavio Tosi, il sindaco leghista di Verona.