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Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
Stefano Cucchi non è morto per disidratazione, è morto perché è stato curato male o perché forse non è stato curato affatto…
• Mi ricordi la storia.
Non può averla dimenticata, se non altro per le foto terribili di quel cadavere. Il volto devastato, l’occhio destro rientrato nell’orbita, l’arcata sopraccigliare sinistra gonfia, la mascella solcata verticalmente da una frattura. Fermato e portato a Regina Coeli perché sorpreso con venti grammi di hashish, in sei giorni è passato da 43 a 37 chili. Secondini e medici dell’ospedale Pertini, nel cui reparto penitenziario venne da ultimo ricoverato, hanno sempre sostenuto che Cucchi ha volutamente rifiutato di nutrirsi per attirare l’attenzione su di sé e, dunque, è in un certo senso responsabile della propria fine. I medici legali, guidati dal professor Paolo Arbarello dell’università La Sapienza, hanno adesso ribaltato quella versione dei fatti. La vescica di Cucchi era piena d’acqua («tre bicchieri»). Dai prelievi di urina la funzionalità renale risulta corretta. Cucchi è morto perché non è stato curato, nonostante un quadro clinico molto complicato: una «fortissima cachessia», vale a dire era magrissimo e in uno stato prossimo alla malnutrizione; una disfunzione epato-cancreatica; una grave ipoglicemia; uno squilibrio elettrolitico; una «rilevante bradicardia», cioè un battito del cuore molto lento, 40 pulsazioni al minuto. «Il quadro clinico del giovane all’ingresso all’ospedale Pertini (nel reparto dedicato ai detenuti - ndr) era fortemente compromesso e non permetteva la degenza nel reparto detentivo. Cucchi avrebbe dovuto essere ricoverato in un reparto per acuti […] Abbiamo rilevato una carenza assistenziale. Abbiamo un dubbio sul perché un paziente in quelle condizioni sia stato avviato a quel reparto. Andavano impostate diversamente le terapie. Ci sono state omissioni e negligenze […] Se poi i medici hanno fatto bene o no, sulla base delle informazioni che avevano e dei protocolli, a fare quello che hanno fatto, è una valutazione che spetta al magistrato».
• Che commento si può fare, a questo punto, su una vicenda simile?
Bisogna interrogarsi sul nostro grado di civiltà. L’affare Cucchi ha attirato l’attenzione sul caso Uva: un uomo di 43 anni, Giuseppe Uva, fermato in stato d’ebbrezza a Varese alle tre di notte del 14 giugno 2008, portato in caserma e pestato a morte per tre ore di seguito. Lo hanno seviziato: ci sono tracce di sangue dietro i pantaloni, attorno ai testicoli e all’ano. Gli slip sono spariti. Un testimone dice che tra quelli che l’hanno ammazzato di botte c’è un carabiniere la cui moglie aveva avuto una storia con la vittima... Ma che Italia è?
• Alla fine potrebbero essere due casi isolati.
Forse. Ma è tutto il sistema della nostra repressione che mi fa dubitare. Nelle carceri italiane muoiono 150 detenuti l’anno. Un terzo per cause naturali, un terzo si ammazza, l’ultimo terzo va all’altro mondo per «cause da accertare». A parte il fatto che i suicidi non sono normali (21 volte più suicidi in cella che fuori), in base ai dati del dossier “Morire di carcere”, elaborato dall’associazione “Ristretti orizzonti”, su 50 “cause da accertare”, 16 sono in mano alla magistratura. Cioè l’accertamento ha un risvolto penale. Si tratta di detenuti uccisi ufficialmente da un infarto, ma che avevano la testa spaccata. O di suicidi pieni di lividi. Secondo “Ristretti Orizzonti” «la morte di Stefano Cucchi ha avuto l’effetto di scoperchiare il calderone infernale delle morti in carcere».
• Ho sentito anche che le carceri sono sovraffollate.
Fa parte del discorso generale sul nostro stato di civiltà. Nelle nostre 208 prigioni ci sono 65 mila detenuti per 43 mila posti, cioè 146 persone in 100 posti letto (dati di “Antigone”). La media europea è di 97 detenuti per cento posti letto. Secondo gli standard europei, ogni prigioniero dovrebbe avere a disposizione sette metri quadrati. I nostri devono vivere in tre metri.
• Una volta però abbiamo parlato di un piano del governo.
Sì, il governo ha dichiarato lo stato d’emergenza. Fino al 31 dicembre 2010 il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, avrà poteri analoghi a quelli che ebbe il responsabile della Protezione Civile Guido Bertolaso nella gestione del dopo terremoto all’Aquila. Seguendo il modello industriale utilizzato per dotare, a gran velocità, di case i terremotati, si punta a costruire per la fine di quest’anno 47 padiglioni e 18 nuove carceri flessibili, destinati ad accogliere i condannati a pene lievi. Entro il 2012 dovrebbero esserci altre 7 strutture penitenziarie, per 21.709 nuovi posti e una capienza complessiva per 80 mila unità. Speriamo che sia almeno l’inizio dell’uscita dall’inferno. [Giorgio Dell’Arti, Gazzetta dello Sport 9/4/2010]
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