Francesca Bonazzoli, Corriere della Sera 09/04/2010, 9 aprile 2010
LA MASCHERA DELLA REALTA’
«Bisogna scoprire il demone in ogni cosa. L’enigma e l’inquietante sono all’angolo della strada e basta solo saperli vedere». Così, i fratelli de Chirico, spiegavano la loro Metafisica, riportando in questo modo la realtà al centro della speculazione negli stessi anni in cui Kandinskij parlava di spirituale nell’arte e Freud indagava sui sogni.
Contrariamente al suo significato nella storia della filosofia e alla traduzione letterale del termine, che in greco vuol dire oltre le cose fisiche, la Metafisica di de Chirico non era dunque lo svelamento di un’essenza immutabile del mondo, della sua fondazione logica e ultima dietro le apparenze mutabili. Era piuttosto la consapevolezza dell’«insensata bellezza della materia, l’immediato cogliere che l’origine è abisso».
Per le cronologie ufficiali, questa scuola pittorica nasce a Ferrara nel 1917 dall’incontro di Giorgio de Chirico, di suo fratello Alberto Savinio e Carlo Carrà che, reduce dagli entusiasmi futuristi, si trovava nello stesso ospedale militare dove era ricoverato de Chirico a causa dei suoi disturbi nervosi. Agli incontri partecipava anche De Pisis e l’anno successivo si aggiunse Morandi, ma l’avventura si concluse nel 1921 con l’affermarsi del ritorno all’ordine rappresentato dal movimento Valori Plastici.
Tutto questo ufficialmente, perché, in realtà, quell’atto fondativo collettivo fu solo l’occasione per ottenere una visibilità a lungo e invano cercata dai fratelli de Chirico per il loro pensiero che aveva visto gli albori nel 1909 a Milano ed era rimasto di difficile comprensione, tagliato com’era su misura, come un abito di sartoria, su loro stessi. E infatti, a chi gli chiedeva cosa fosse la Metafisica, Savinio rispondeva: «Non è nulla... è un nostro gergo famigliare».
A fondamento della Metafisica c’erano le letture e l’intenso scambio di riflessioni su Nietzsche, Pascoli, Leopardi, Schopenhauer e soprattutto sul mito classico: insomma la cultura tedesca e quella greca che i due fratelli avevano respirato dalla nascita.
Niente a che vedere con il pensiero sotteso al Surrealismo (che significa al di sopra della realtà), anche se i confini spesso si confusero. De Chirico, infatti, partecipò alla prima mostra dei Surrealisti; Breton lo indicò come loro padre e il primo numero de «La Révolution Surréaliste» portava in copertina la foto di Man Ray con de Chirico al centro del gruppo. Ma mentre i surrealisti erano figli di Freud e puntavano sull’inconscio e il sogno, de Chirico era invece figlio dei miti greci che trasportavano l’Olimpo sulla terra. Inoltre, mentre per i surrealisti ogni uomo, non solo l’artista, ha in sé un’inesauribile riserva di immagini subsconsce che può portare alla luce tramite l’automatismo psichico; per de Chirico, al contrario, è l’artista veggente, il mago, il solo capace di creare nuovi sensi nella radicale insensatezza del mondo. L’artista metafisico è come il super uomo nietzschiano che comunica per enigmi, mescolando finto, vero e verosimile. Ed è anche come il poeta leopardiano capace di vedere la poesia oltre la siepe, immaginare un mondo dietro tutto ciò che è nascosto o solo suggerito.
In questo contesto, non è la logica, dunque, bensì la mediazione magica, a condurci alla comprensione della realtà, essendo la realtà uno schermo dietro il quale è nascosta una verità. La natura, diceva Eraclito, «ama nascondersi» e dunque proprio perché la verità ama la maschera, non ha senso la distinzione tra la verità e l’apparenza. Così, profetizzava Nietzsche, il mondo vero alla fine divenne una favola.
Francesca Bonazzoli