Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 09/04/2010, 9 aprile 2010
NUOVI PARAMETRI PER IL RISCHIO PAESE - C’è
stato un tempo nel quale gli economisti prevedevano che il cittadino greco medio avrebbe presto avuto un reddito superiore a quello del signor Rossi. Il prodotto interno lordo pro capite a parità di potere d’acquisto della Grecia, osservavano, stava ormai per superare quello dell’Italia. In Eurolandia, solo il Portogallo sarebbe rimasto indietro. Il sorpasso della Spagna veniva dato per acquisito. E all’Irlanda, un’altra antica Cenerentola, toccava addirittura il rango del modello da imitare. Quel tempo era il 2007, non un secolo fa.
Nel volgere di pochi mesi, la Grande crisi ha messo in ginocchio gli emergenti di Eurolandia. E ora la Grecia fatica sempre più a emettere nuovi titoli pubblici con cui ripagare i vecchi in scadenza, nonostante offra rendimenti di 4 punti percentuali superiori alle obbligazioni federali tedesche. Che uno Stato non trovi più credito non è una novità. Tra il 1970 e il 2007 si contano 63 casi di insolvenze statali, ma tutte ai margini degli imperi. Anche la Grecia è periferia, e tuttavia sta dentro l’area dell’euro, seconda moneta di riserva mondiale. Questo cambia parecchio nella misurazione dei rischi Paese. A maggior ragione se si considera che negli Usa il rendimento delle obbligazioni decennali del Tesoro ha ormai superato l’interest rate swap di uguale scadenza, come se le banche americane fossero più solide dello Stato che le ha salvate. questa un’apparenza ridicola epperò segnalatrice di un malessere che dal debitore privato si estende a quello sovrano perfino laddove il Tesoro potrebbe finanziarsi stampando banconote, almeno finché il dollaro resti la prima moneta di riserva al mondo.
Nel 2007, dunque, avevamo una percezione errata della posizione dell’Italia nel club della moneta unica. E oggi? Se ci limitassimo al Pil e al peso del debito pubblico sul medesimo, dovremmo dire che l’Italia è messa male: nel 2009 il Pil cala del 5% contro una media del 4% nell’area euro, mentre il debito pubblico sale al 116% del Pil, secondo solo a quello greco, quando il debito pubblico medio di Eurolandia è all’84%. Ma la Grande crisi ha rivelato l’insufficienza di questi parametri, per quanto fissati dal Trattato di Maastricht. Nel progettare l’euro, i governi si preoccupavano solo del debito pubblico, la cui gestione è in loro diretto potere. Non del debito di famiglie, imprese, assicurazioni e banche, sul quale avrebbero potuto intervenire solo in modi indiretti, censurabili come statalisti nel momento in cui si credeva che il mercato potesse aggiustare da solo eventuali squilibri su questo fronte. La Grande crisi ha fatto emergere gli abbagli di quell’approccio. Di qui l’esigenza di una lettura più sofisticata delle economie: impresa ardua alla quale dà un suggestivo contributo il servizio studi di Intesa Sanpaolo (Anna Maria Grimaldi, Paolo Mameli, Piccoli squilibri crescono. Vizi privati di un’unione (solo) monetaria, marzo 2010).
Sapere come va il Pil e porre in relazione con il Pil il debito pubblico funziona sempre. Ma andrebbe meglio se si tenesse d’occhio anche la posizione finanziaria netta di un Paese (differenza di attività e passività finanziarie) rispetto al Pil. E poiché un Paese può ereditare la ricchezza ed essere inefficiente, è bene aver presente il saldo delle partite correnti con l’estero atteso nei due anni successivi perché questo ci dice se la ricchezza aumenterà omeno. E ancora: siccome l’entità assoluta dei debiti conta, vanno rilevati distintamente quelli di famiglie, imprese finanziarie e non. Un tempo, quando faceva le pulci ai Paesi del Terzo mondo, il Fondo monetario internazionale misurava la quota di debito pubblico che poteva essere coperta delle entrate fiscali di un anno, ipotesi libresca eppure utile a capire il grado di resistenza di un’economia. Ora che la virtù nei conti pubblici fiorisce in Cina e in Brasile, la regola va applicata ai vecchi soloni. Non è priva di capacità segnaletica la quota di passività verso l’estero coperta da investimenti diretti, cristallizzati in imprese, assai meno volatili di quelli meramente finanziari. Infine altri due indicatori di finanza pubblica: la variazione del saldo primario (i conti pubblici dell’anno prima degli interessi passivi) necessaria per stabilizzare il debito pubblico al mitico 60% del Pil nel 2060 secondo le stime della Commissione europea; la variazione dello stesso saldo per correggere l’impatto sul debito pubblico delle dinamiche demografiche.
Dieci gli indicatori, dieci i Paesi analizzati: Germania, Francia, Italia, Spagna, Austria, Belgio, Olanda, Grecia, Irlanda e Portogallo, la crema di Eurolandia (mancano Slovenia, Slovacchia, Finlandia, Lussemburgo, Cipro, Malta). Per ricavare un indice globale, i due economisti hanno calcolato il dato medio per ciascun indicatore, poi gli scostamenti di ogni Paese dalle medie e infine hanno fatto la media delle posizioni. Virtuosi sono i Paesi sotto la parità, a rischio gli altri. Ebbene, l’Italia del 2009 è tra i virtuosi assieme a Francia e Olanda, ma meno di Austria, Germania e Belgio. In 7 indicatori su 10 è sopra la media. I punti di forza sono il basso debito del settore privato, il minor deficit primario e la riforma delle pensioni. Palle al piede l’alto debito pubblico e le poche passività verso l’estero coperte da investimenti stranieri stabili. Ma nel 2007, quando avrebbe dovuto imitare l’Irlanda e prendere lezioni dalla Spagna e dalla Grecia, com’era l’Italia? Secondo Intesa Sanpaolo, era sempre nel giro dei virtuosi, mentre gli emergenti europei già lasciavano intravedere i rischi oggi manifesti: anche la Grecia che aveva falsato i propri conti pubblici.
Questo nuovo indicatore dimostra capacità predittive. E tuttavia si discosta dai prezzi dei credit
default swaps (cds) sui titoli pubblici: all’estremo negativo c’è ovviamente la Grecia, che, già prima dei disastri di ieri, pagava un premio per assicurare il suo debito pubblico 11 volte superiore alla Germania. Colpisce tuttavia il fatto che l’Italia pagasse 113 punti base rispetto ai tassi swap contro i 116 della Spagna, i 139 del Portogallo, i 142 dell’Irlanda, i 46 della Francia e i 56 dell’Austria. Un tempo, il verbo dei cds avrebbe tolto credibilità all’indicatore di Intesa Sanpaolo. Ma la Grande crisi dice che il mercato può molto sbagliare nello stimare i rischi. E tuttavia, non avendo niente di meglio, dovremo dire che a fallire è stato il mercato in quanto tale, ma il mercato che ragionava secondo la cultura della City e di Maastricht. Per questo mercato è irrilevante che soltanto in due indicatori sui 9 paragonabili gli Usa siano migliori della media dei 10 di Eurolandia. E sul debito pubblico è legittimo sospettare un minor rigore nella contabilità americana. Da qui a dire che gli Usa siano messi peggio dell’Italia ce ne passa, ma la tripla A tuttora elargita dalle agenzie di rating al debito pubblico americano sembra frutto della potenza politico-militare e del dollaro più che dell’economia reale.
Massimo Mucchetti