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 2010  aprile 09 Venerdì calendario

GIANCARLA ROSI RITRATTO DI GRUPPO CON SIGNORA

Quanto può contare la bella casa di una signora lombarda a Roma nella storia italiana? Mentre scrivo sono nella grande stanza vuota dove si sono accapigliati Flaiano e Fellini, ma anche Antonello Trombadori e Lucio Coletti, dove Franco Cristaldi si appartava con Francesco Rosi per parlare di film, Garcia Marquez doveva decidere se il suo editore italiano sarebbe stato Feltrinelli o Mondadori, Silvana Mangano pareva dormire su uno dei grandi divani e Luchino Visconti osservava la scena un po’ in disparte. Una cosa devo dire subito. Questa grande stanza che per tre decenni è stato il luogo dove ”verrano a prendere i prigionieri politici per portarli allo stadio” (Sergio Corrucci) non è mai stato un salotto. La parola avrebbe fatto scattare con veemenza Giancarla Rosi. Bella, indomita, aggressiva, senza rispetto e senza pace ma anche (in perfetta contraddizione) capace di amore, intuizione fulminea, amicizia eterna. Mai salotto perché a casa Rosi non si riceveva. Anche perché era la casa del coraggioso regista italiano che attraversava senza voltarsi (a volte pensavi che fosse sbadato o troppo innamorato del suo lavoro) le minacce di mafia mentre cambiava il cinema girando ”Salvatore Giuliano” oppure era il primo autore e finora unico (finché non si troverà il capitolo rubato al romanzo ”Pe t ro l i o ” di Pasolini) a raccontare la vita e la morte di Enrico Mattei, e Mauro De Mauro, che mentre partecipava al film, scompariva per s e m p re . Niente convenevoli e finzioni mondane, nel salone più colmo di vita il talento del mondo, dove nessuno invitava mai. Semplicemente, a uno a uno, a gruppi, per tutta la sera suonavano al citofono o si infilavano dalla porta socchiusa. E poteva essere Ted Kennedy, di passaggio da Roma con Richard Holbrooke (l’uomo che adesso sta tentando la pace in Afghanistan), poteva essere Milton Greene, il fotografo di Marlin Monroe, oppure Norman Mailer prima o dopo le pugnalate alla prima moglie. Se Joan Baez accordava la chitarra vicino al camino, erano affari suoi, le piaceva star li. Potevi incontrare Moravia da un lato e Michelangelo Antonioni dall’ altro ancora con Monica e poi con Claire (sempre in piedi, Michelangelo, come per vedere bene l’ inquadratura), e Ugo Stille, ospite clandestino che molti a distanza scambiavano per Sartre e il cui famoso talento era parlare mai, (forse qualche domanda ) e ascoltare semp re . C’era Lina Wertmuller che attraversava il tempo, il mondo e la stanza con l’agilità delle ragazzine brave in ginnastica doppio salto (mortale) con sorriso, piedi giunti e successo ed Enrico Job, il suo amore, che la guardava un po’ come un padre, un po’ come un figlio. Esattamente i sentimenti di lei. Sull’ altro divano Marcello Mastroianni, annoiato, distratto, felice. E poi, e prima e dopo e durante, e sopra e al comando, ma con un istinto straordinario da grande attrice senza spettacolo, da gran regista senza copione, di padrona di casa che c’è dovunque ma interpreta e dirige una libertà illimitata, c’è Giancarla Rosi, caso unico al mondo di donna padrona (soprattutto di sé) un dentro-fuori fantastico di sentimenti e performance, un satellitare a tre fili: il marito, tutti noi, e un senso spietato di vitalità allegra, quasi sarcasmo, quasi pietà. Non tutti raccoglievano al volo i lanci delle sue frasi celebri tipo: ”ma perché essere antipatici quando si può essere odiosi?” per descrivere qualcuno che nessuno vuole più ricordare. Non tutti stavano al gioco, forse solo Luchino Visconti (’Gr uppo di famiglia in un interno” ). O Peppino Patroni Griffi (’Metti una sera a cena”) che hanno visto il teatro come emanazione di una persona che sprigiona uno strano campo magnemagnetico: energia, guizzo istintivo, immagine farsesca che si compone in visione, un mondo alla Maccari che si trasforma in realistico, un ridere così appassionato che diventa un riflesso triste di comprensione e anticipazione. In questa grande stanza, quando non era vuota, tutto era frenetica parola, ma contavano gli sguardi. Francesco Rosi, detto ”il professore” per quel suo tono naturalmente autorevole che gli faceva rallentare le frasi, Dudu (Raffaele) la Capria, spaesato, paziente. Giulietta Masina o petulante o stizzita. Bertolucci e Ceroli con una strana somiglianza, giovani esemplari di esistenza in agguato. Al piano di sopra la bambina, Carolina Rosi. Avrebbe dovuto dormire e ha sentito tutto. Ti porta in dono il linguaggio. Caldo e insolente, affettuoso e drammatico. E, come scansione, le risa di quando il mondo era tragico ma non pessimo. Diresti che Giancarla Rosi, la donna che per almeno tre decenni ha avuto intorno l’intellighentia di Roma (no, non di Roma, del mondo che attraversava Roma) era una leader naturale, un motore, una maga? La stranezza, così rara in donne forti e sfacciate e capaci di farsi la vita con le proprie mani, è l’amore, che sembra dominare ed è dominato. Francesco, il marito, l’uomo che ad ogni film ha lasciato un impronta e generato nel mondo decine di allievi, al modo in cui certi personaggi seminano il mondo di figli senza saperlo, le ha tenuto testa come un ragazzo, amando e litigando fino alla fine. Come in un film tutto comincia in questa grande stanza vuota dove si veniva senza invito, una selezione spontanea perché non era così facile restare e tener testa. Hanno detto le cronache: se n’è andata nel lampo di un forte, brevissimo incendio. Strana metafora di una vita piena di festa. Una lunga festa segnata da presentimenti avverati. Io me la ricorderò mentre in piedi accanto al marito nel salone del Festival di Venezia fronteggia le signore della Milano bene che usano come fischietto le loro chiavi dell’Hotel Gritti per dire il loro sdegno contro ”Le mani sulla città”. Ero lì accanto, per quel film ero venuto apposta dall’ America e non sono stato mai così orgoglioso nella mia vita.
Furio Colombo, il Fatto Quotidiano 9/4/2010;