Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
Addio Cossiga. Perché l’ex presidente è stato un personaggio così importante per l’Italia? Ieri alle 13 e 18 è morto Francesco Cossiga, già presidente della Repubblica, capo del governo, ministro dell’Interno. Aveva 82 anni. Portato il 9 agosto al Policlinico Gemelli di Roma per un’infezione che, avendo aggredito le vie respiratorie, lo aveva ridotto ad aver «fame d’aria», era sembrato migliorare, al punto che i medici lo avevano staccato dalle macchine. Invece una crisi cardiocircolatoria lo ha stroncato. Cossiga ha lasciato un testamento con le sue ultime volontà e quattro lettere, chiuse in un plico, indirizzate alle prime quattro cariche dello Stato: Napolitano, Schifani, Fini e Berlusconi. Non ci saranno — per sua volontà — funerali di Stato: le esequie si svolgeranno in Sardegna, o a Sassari o a Cheremule (Ss), un piccolo paese del Mejlogu dove erano nati i genitori. Picchetto d’onore della Brigata Sassari. Camera ardente oggi dalle 10 alle 18 in Roma, presso la Chiesa centrale dell’Università cattolica Sacro Cuore (largo Francesco Vito 1). Cordoglio unanime di papa Benedetto XVI e di Napolitano, Schifani, Fini, Berlusconi, Prodi, D’Alema, Bersani, Di Pietro, Casini, Calderoli, e del senatore a vita Giulio Andreotti.
• In definitiva, per che cosa dobbiamo ricordarlo?
Nel ritratto iniziale ci siamo dimenticati la presidenza del Senato. Aveva detto: «Quello di presidente della Repubblica è stato il lavoro più noioso e ingrato che io abbia mai svolto. Il lavoro vero, dolorosissimo, è stato quello di ministro dell’Interno. Il lavoro pesante quello di presidente del Consiglio. Il lavoro divertente quello di presidente del Senato». Non si devono dimenticare altri due momenti topici: quando venne incaricato di difendere Trabucchi per una questione di tangenti e più tardi, nel 1966, quando diventò sottosegretario alla Difesa con delega ai servizi segreti, una delle sue tante passioni. Lì si guadagnò i punti per essere nominato ministro dell’Interno nel periodo più difficile per il Paese, quello del sequestro di Aldo Moro.
• Era laureato in giurisprudenza?
Sì, aveva preso la maturità a 16 anni e la laurea a 20, ottenendo poi la cattedra di Diritto costituzionale. Era nato a Sassari il 26 luglio 1928, «repubblicano e antifascista» già in culla, per via della famiglia. Era secondo cugino («Cioè fratello») di Enrico Berlinguer: avevano due bisnonni in comune e sua madre aveva cresciuto la madre del segretario del Pci quando era rimasta orfana. Tutte cose che ha raccontato tante volte lui stesso. Cattolico della stessa parrocchia di don Masia (San Giuseppe) da cui sono usciti, oltre a lui, Antonio Segni, Arturo Parisi, Gavino Angius e Luigi Manconi, si iscrisse subito alla Democrazia Cristiana, di cui conquistò in un battibaleno i vertici locali. Consigliere d’amministrazione del Banco di Sardegna a 29 anni e deputato l’anno dopo, nel 1958. Dopo il caso Trabucchi e i servizi segreti ci fu la tragedia di Moro.
• Si dice che abbiamesso i capelli bianchi in quell’occasione.
Sì, dopo la morte di Moro (1978) si dimise da ministro dell’Interno, entrò in una depressione cosmica e tentò di sparire dalla vita politica. «Mi svegliavo di notte urlando che ero stato io ad ucciderlo. Il che era "fattualmente" vero. Ero stato io a rappresentare con durezza la linea dell’intransigenza. E sapevo che la linea dell’intransigenza avrebbe portato quasi certamente all’uccisione di Moro».
• Fu eletto presidente della Repubblica al primo colpo, vero?
Sì, nel 1985. Quello fu il capolavoro politico di De Mita. Votarono per lui anche i comunisti. Un capo dello Stato indimenticabile. Stette in silenzio per metà mandato e, da un certo momento in poi, del tutto all’improvviso, prese a esternare in ogni direzione, anzi a «picconare», verbo che si direbbe coniato per lui. Giudizi, profezie, battute taglientissime. Spesso era difficile interpretarlo. Scalfari, che gli era stato amico, chiese che lo mettessero in manicomio. Lui poi ha spiegato che quel suo apparente straparlare era unavvertimento per quello che stava per succedere, la fine della Prima repubblica, Tangentopoli, la china inarrestabile che ne sarebbe seguita. Dopo quell’esperienza c’è da ricordare ancora la fondazione dell’Udr, partitino con cui salvò il governo D’Alema e che poi chiuse lasciando il campo all’Udeur di Mastella.
• Non ha smesso di picconare, in fondo, neanche dopo.
Sì. Durante la sua presidenza del Consiglio (1979-1980) ci furono le stragi di Ustica e di Bologna. Su tutt’e due, Cossiga ha offerto interpretazioni — per dir così — scandalose. L’aereo di Ustica sarebbe stato abbattuto, per sbaglio, dai francesi. La strage di Bologna sarebbe stato un altro errore, compiuto questa volta dai palestinesi. Ne abbiamo parlato pochi giorni fa, ricordando i trent’anni di quelle due tragedie. Cossiga aveva grande dimestichezza con i servizi e conosceva molti segreti della Repubblica. [Giorgio Dell’Arti, Gazzetta dello Sport 18/8/2010]
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