Ugo Tramballi, Il Sole 24 Ore 18/8/2010;, 18 agosto 2010
BEIRUT SI ARRICCHISCE ASPETTANDO LA PROSSIMA GUERRA
D’improvviso i grandi alberghi sulla corniche si erano svuotati e gli aerei in partenza riempiti. Precipitare della situazione? Paura di un nuovo conflitto? No, Ramadan. La regola prescrive che i musulmani tornino a casa loro a passare il mese del digiuno e della preghiera. "Les accrochages" alla frontiera con Israele, come chiamano con levità i libanesi tutti gli scontri a fuoco, avevano provocato solo un rapido moto di sopracciglio. Poi tutti in barca, nei ristoranti della costa e della montagna che la domina, nei negozi eleganti. Come gli abitanti della città, nemmeno i sauditi, i kuwaitiani e i benestanti di ogni emirato del Golfo (cioè quasi tutti gli indigeni) venuti a passare l’estate a Beirut, hanno pensato al peggio. Nessuno ha creduto alla guerra e ancor meno i turisti membri dell’Opec: 35 milioni di barili di greggio al giorno, mille miliardi di riserve provate. Anche a 75 dollari il barile, "il prezzo ideale" secondo Ali Al Naimi, il guru del petrolio saudita, i soldi da spendere a Beirut erano illimitati. Chiedere se almeno l’incidente nel Golfo del Messico, l’impellente "go green"delle società civili occidentali, provocasse qualche insonnia, era come fare una domanda stupida. L’Agenzia internazionale per l’energia garantisce che la domanda di petrolio del 2010 raggiungerà gli 86,6 milioni di barili al giorno, circa due milioni più dell’anno scorso.
Ora che sono tornati tutti a casa per il Ramadan, il Centre Ville ricostruito da Rafik Hariri - la sua grande eredità lasciata al Libano insieme all’aeroporto - sembra esausto.
Anche se quest’anno la festa religiosa dell’Islam è arrivata a metà estate, la stagione è abbondantemente salva. Ma se si confermerà una crescita economica attorno all’8%, non sarà tanto per i due milioni di turisti stranieri quanto per i soldi dei libanesi. I libanesi, o meglio certi libanesi, si stanno arricchendo tanto quanto Hezbollah si sta rafforzando politicamente e militarmente. E il pericolo che il potere del secondo rappresenta per la stabilità del paese non ferma i primi dall’investire e dal guadagnare.
Fra il 2004 e il 2009 le vendite nel settore immobiliare erano cresciute del 19,5% l’anno:anche nel 2006,quando ci fu la guerra fra Israele ed Hezbollah. Il 2010 è solo arrivato ad agosto e le transazioni sono aumentate del 39,5%. Parlare di real estate in Medio Oriente è come dire bolla, vuoti bancari, crisi finanziaria. Non qui. «Per ogni 100 dollari spesi nell’acquisizione di proprietà – spiega il vicegovernatore della Banca centrale Saad Andary –le banche non ne finanziano che 16/17». I 3,1 miliardi di prestiti e mutui non sono che il 2,5% dei bilanci delle banche libanesi. Il resto sono soldi in gran parte dei libanesi espatriati. Nel 2009 l’afflusso di capitali dall’estero è stato di 18 miliardi di dollari. Il loro contributo sul Pil, il 20%, è il più alto del mondo. Nel resto del Medio Oriente raggiunge il 2%. I grandi mercanti in Africa, i professionisti in Europa e America. Più del 40% dei medici laureati in Libano negli ultimi 40 anni praticano negli Usa. Lavorano all’estero ma investono e si fanno la casa in Libano.
Si costruisce in ogni quartiere di Beirut, ad Ashrafiye maronita, a Verdun sunnita, nella periferia meridionale sciita. Di spazio non ce n’è molto. A volte radono al suolo senza ritegno ville antiche e bellissime ma è solo verso il cielo che si può andare: decine di grattacieli anonimi, alcuni vuoti solo perché appena finiti, altri in costruzione, stanno cambiando il profilo della città. Per la prima volta Beirut incomincia a sembrare brutta, il suo caos distruttivo e costruttivo sta perdendo fascino.
Questa smodatezza in un senso e nell’altro non è che una forma di follia. Perché se nessuno ha creduto che lo scontro alla frontiera potesse rovinare l’estate, tutti sono convinti che presto o tardi la guerra ci sarà. Fra i cristiani nelle fresche serate di Brumana, una balconata sopra le luci della rada di Beirut; fra la borghesia sunnita e i pochi sciiti laici, nel profumo di narghilè e salsedine di Ain el Mraisseh, le discussioni sono solo sulla guerra. «Scoppierà, secondo lei?», chiedono al visitatore straniero. È una domanda retorica perché non prevede risposte contrarie o incerte. Richiede solo una conferma. «Non ci sono due dita che siano identiche ma la mano è sempre la stessa » è il vecchio proverbio che spiegava la costruttiva diversità del Libano. Nelle serate di Beirut è usato in chiave distruttiva: le dita sono quelle che premeranno un’altra volta il grilletto, la mano è la solita: quella di Israele, dell’Iran, la Siria. Ormai anche di Hezbollah.
Gli accordi di Doha di due anni fa, firmati dai partiti libanesi e controfirmati dai loro padrini nella regione, hanno impedito una guerra civile ma rafforzato Hezbollah. Le stagioni politiche non durano mai a lungo in Libano e quella di Doha si sta rapidamente logorando. La regola di un paese con 17 confessioni e molti sponsor internazionali richiede che nessuno sia più forte degli altri. Hezbollah ora è fortissimo. Anche la Siria che ha coltivato il partito fondamentalista sciita, incomincia a preoccuparsi: in Libano ha sempre avuto clienti che assecondassero i suoi interessi, non dei pari grado come Hezbollah che ormai ha un’agenda sua, scritta più con gli iraniani che con i siriani. Non ci sono segnali concreti di un cambio di alleanze ma la realtà sul campo sta raggiungendo un altro punto di rottura.
Perché il Libano dovrebbe interrompere una ricostruzione così ricca? Perché qui l’economia non è mai stato un deterrente, perché dopo una distruzione c’è sempre una ricostruzione. E perché le estati libanesi non sono per tutti. Lo 0,5% della popolazione possiede il 45% dei risparmi bancari, mentre il 28% vive con 4 dollari al giorno. I medici praticano all’estero ma la metà dei libanesi non ha copertura sanitaria. I poveri sono sempre le prime e a volte entusiaste reclute di una guerra.