Pietro Del Re, la Repubblica 18/8/2010, 18 agosto 2010
L´ITALIA E L´INCUBO DEL BIG ONE "TUTTO IL MONDO SI PREPARA, NOI NO"
Per poter parlare di "Big One" italiano basterebbe un terremoto di magnitudo 7 in una città di più di duecentomila abitanti. Oppure, come è già accaduto più volte in passato, una sequenza a mitraglia di scosse meno devastanti ma geograficamente vicine tra loro. «Se ciò dovesse prodursi in città come Catania, Reggio Calabria o Napoli, assisteremmo a situazioni simili a quelle di Haiti, con decine di migliaia di morti, con leggi speciali per consentire all´esercito di sparare sugli sciacalli e con la cancellazione di tutte le infrastrutture del luogo», spiega l´ex senatore radicale Mario Signorino, una volta feroce anti-nuclearista e oggi presidente dell´Istituto per le scelte ambientali e tecnologiche (Isat), un´associazione di esperti che ha appena realizzato uno studio su come l´Italia s´è attrezzata per affrontare un possibile, anzi probabile "Big One".
La prima conclusione che si evince sfogliando il rapporto dell´Isat è che nel nostro paese non esistono strategie di prevenzione sismica. Peggio: sempre secondo Signorino, dell´eventualità di un grave terremoto e di come attenuarne le conseguenze non si è mai discusso seriamente al livello politico. Eppure, dall´anno Mille a oggi, l´Italia è stata funestata da una trentina di terremoti di alta magnitudo, che hanno colpito per lo più le regioni del Meridione, in primo luogo la Calabria, poi la Campania e la Sicilia.
È vero, a differenza della California, dove pure si teme un "Big One", noi dobbiamo fare i conti con duemila anni di Storia, che ci hanno lasciato 40.000 palazzi d´epoca, 20.000 castelli, 2.100 siti archeologici, 30.000 archivi, 4.150 musei, 85.000 chiese e quasi 8.000 centri storici. A questo computo, vanno aggiunte più di 1.000 costruzioni che contengono sostanze potenzialmente pericolose, tra cui 300 stabilimenti chimici o petrolchimici, 265 depositi di gas, 157 depositi di oli minerali, 87 depositi di esplosivo. «La vulnerabilità italiana è dovuta al fatto che la maggioranza dei nostri centri urbani è stata edificata senza l´applicazione di criteri antisismici. Lo stesso vale per gran parte del patrimonio edilizio, architettonico e culturale, degli edifici e delle opere strategiche che possono subire danni gravissimi da terremoti anche modesti», sostiene il rapporto dell´Isat.
Gli studiosi concordano nel pensare che il terremoto del 1908 a Messina (in cui persero la vita oltre 90.000 persone) si rivelò così disastroso per via delle pessime condizioni edilizie all´epoca prevalenti in Sicilia. Secondo uno studio dell´Università di Messina, se un sisma della stessa intensità dovesse prodursi oggi oltre il 50 per cento degli edifici verrebbe danneggiato e le vittime potrebbero essere decine di migliaia. Lo stesso vale per il terremoto nella regione di Catania del 1693, perché quel sisma colpirebbe una regione venti volte più popolata.
Nel Settecento, numerose cittadine dell´arco appenninico furono devastate da una quindicina di terremoti di intensità medio-alta. Che cosa accadrebbe se ciò dovesse riprodursi oggi? E dove troverebbero rifugio le popolazioni delle aree colpite? «La messa in sicurezza di un paese non è un´utopia, ma un obiettivo che si può e si deve e si perseguire, come avviene, per esempio, in Giappone e negli Stati Uniti. Eppure da noi non c´è uomo di governo che pensi alla prevenzione o che stabilisca quali opere mettere in sicurezza», dice ancora l´ex senatore radicale.
Il problema sono i costi e i tempi per realizzare queste strategie cautelative. Si tratta infatti di esborsi immensi, per un´opera la cui realizzazione si rivelerebbe ultra decennale. Ma che, prima o poi, qualcuno dovrà pure mettere in cantiere. Partendo dai fondi stanziati per i terremoti del Belice, dell´Irpinia, del Friuli e dell´Umbria-Marche, che sono tutti avvenuti in aree non densamente popolate, gli esperti hanno valutato che il costo medio per la ricostruzione di un chilometro quadrato è compreso tra 60 e 200 milioni di euro, e quello di un singolo comune tra 270 e 1.400 milioni di euro. Sempre secondo il rapporto dell´Isat, il costo per la ricostruzione del terremoto dell´Aquila dovrebbe aggirarsi attorno ai 20 miliardi di euro.
Gli ultimi terremoti, compreso quello abruzzese, sono avvenuti in aree a bassa densità abitativa. È ovvio che in città come Catania o Messina i costi per riparare il riparabile lieviterebbero di parecchio. Al punto che gli esperti si chiedono quanta parte di quei costi saranno un giorno sostenibili da parte dello Stato.
È stato anche calcolato che l´onere di una ricostruzione post-terremoto è almeno tre volte superiore a quello di un "adeguamento" sismico, che consiste nel rinforzare le strutture portanti del costruito. Si può anche intervenire isolando l´edificio dal terreno sottostante con l´uso di gigantesche molle sotto la fondazione, in modo da "separare" il movimento della struttura in caso di terremoto e provocare oscillazioni meno distruttive. L´Italia, sia detto per inciso, è un forte esportatore della rivoluzionaria tecnologia dell´"isolamento" sismico, sebbene in casa propria ne faccia scarso uso.
Dopo il sisma dell´Irpinia, che raggiunse magnitudo 7, non c´è più stato un grosso terremoto in Italia. Quello dell´Aquila, per intenderci, è stato trentatré volte più debole. Oggi, in Giappone, in Corea del Sud e in California, simili scosse provocano soltanto poche vittime. In Italia, è diverso. Ogni volta si produce un´ecatombe e uno sfacelo di macerie. Del resto, se agli abitanti di Tokyo e Osaka vengono consegnati ogni anno zainetti con il kit anti-sismico, da noi le esercitazioni per evacuare una zona a rischio si fanno solo raramente e, quando avvengono hanno il sapore della farsa. È come se nei confronti della minaccia sismica gli italiani fossero ancora molto immaturi, o molto fatalisti. Forse perché da noi, difendersi dai disastri naturali, non è mai stata una priorità nazionale.