Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  agosto 18 Mercoledì calendario

VIOLENZE IN AUMENTO LASCIARE BAGHDAD È SEMPRE PIÙ DIFFICILE

Mentre Washington si prepara a chiudere con l’Iraq, Baghdad brucia. Ieri mattina un kamikaze si è fatto esplodere in un centro di reclutamento dell’esercito in pieno centro, uccidendo almeno 59 persone. Ultimo, drammatico episodio di un’estate segnata da una recrudescenza delle violenze in tutto il paese. Con il mese di luglio che ha registrato 525 morti, record negli ultimi 24 mesi.
Avendo ereditato una guerra non voluta né condivisa, Barack Obama è determinato a mantenere l’impegno al disimpegno. Come previsto, tra due settimane altre 14mila truppe lasceranno il paese. E le rimanenti 50mila cesseranno le operazioni di guerra per concentrarsi in quelle di addestramento delle forze irachene. Che il ritiro sarà completo per il 31 dicembre 2011, come previsto dagli accordi con Baghdad, lo dubitano però in molti.
L’estate della smobilitazione con l’ambasciatore Christopher Hill che è già partito e il generale Jay Odierno che lascerà il suo comando assieme ai 14mila in partenza il 31 agosto - non sta certamente andando bene per gli americani.
Non solo per la riacutizzazione della violenza terroristica, ma anche per l’inadeguatezza dimostrata sia delle forze militari che da quelle politiche irachene. «L’esercito Usa deve rimanere fin quando le nostre forze saranno pronte. Nel 2020», ha dichiarato un paio di giorni or sono la massima autorità militare irachena, il generale Babaker Zebari. Il suo collega, generale Walid al-Rawi, è stato ancora più chiaro su al-Jazeera, la tv araba: «Le nostre forze di sicurezza non hanno il necessario grado di professionalità. Sono ancora legate a gruppi settari. E sebbene oggi a Baghdad ci sia un militare ogni 25 cittadini, non si riesce a tenere la situazione sotto controllo. Figuriamoci se se ne andassero gli americani».
La realtà è che esercito e polizia non sono neppure in grado di proteggere se stessi. Seppur più eclatante, l’attacco di ieri non è stato infatti l’unico del genere. Giorni fa nella città di al-A’zamiyah, un gruppo di militanti vicini ad al-Qaeda ha ucciso e poi bruciato i cadaveri di poliziotti e soldati in pieno giorno. E davanti a decine di persone.
Altrettanto grave è l’ingovernabilità politica. Dal 7 marzo, quando si sono svolte le elezioni, i leader dei due blocchi che hanno ottenuto più seggi, il primo ministro in carica Nouri alMaliki e il suo predecessore Iyad Allawi, continuano a resistere a ogni proposta di governo di coalizione avanzata dai mediatori americani. E lunedì Allawi ha addirittura annunciato la sospensione del negoziato perché in un’intervista il rivale ha definito «sunnita» l’organizzazione da lui diretta (Allawi è sciita anche se ha ottenuto il supporto di molti elettori sunniti). È chiaramente un pretesto, ma sintomatico del fatto che a oltre cinque mesi dalle elezioni nessuno dei due sente l’urgenza di accettare i necessari compromessi.
Per Washington c’è adesso il rischio che l’Iraq cessi di essere un "non problema" politico. A maggior ragione se il segretario alla Difesa Robert Gates dovesse dare le dimissioni nel corso del 2011, come ha annunciato di voler fare in un’intervista concessa lunedì alla rivista Foreign Policy. Ma nel breve termine - e in particolare in vista delle elezioni di metà mandato- esperti consultati dal Sole 24 Ore non ritengono che il presidente debba temere ripercussioni elettorali negative. «Nella strage del centro di reclutamento bisogno guardare a entrambi i lati della medaglia: senza dubbio è stata un’altra dimostrazione della mancanza di sicurezza. Ma anche del fatto che, nonostante fosse chiaro che poliziotti e soldati sono nel mirino di al-Qaeda, centinaia di persone erano in fila per essere reclutate», dice Daniel Serwer, ex viceambasciatore Usa in Italia oggi vice-presidente del think tank di Washington Centro per l’innovazione nella costruzione della pace.
Serwer fa anche notare che in Iraq cinque mesi di trattative per formare un governo non sono necessariamente uno sproposito: per l’ultimo governo ne erano passati sei. «I risultati elettorali del 7 marzo, con due soli seggi di differenza tra due dei quattro gruppi maggiori, rendono obiettivamente difficile la formazione di un governo. Anche in Italia ci si metterebbe un bel po’.E l’Italia ha cinquant’anni di esperienza. L’Iraq è solo agli inizi».
Comunque sia, Serwer non ritiene che la questione irachena sarà al centro del dibattito elettorale del prossimo novembre: «L’Iraq è destinato a rimanere un posto con un livello inaccettabile di violenza. Ma fin tanto che non ci saranno vittime americane non penso che l’opinione pubblica lo vivrà come un problema».